Il problema del quattro

Estratto da: “La filosofia in 32 favole” di Ermanno Bencivenga  Ed. Mondadori

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Un giorno  il  numero  quattro  si  stancò  di essere pari. I numeri dispari, pensava, sono molto più allegri e spiritosi. E si stancò di quella sua forma un po’ insipida, a sediolina. Guarda il sette, si diceva, com’è svelto ed elegante, e il tre com’è tondo ed arguto, e io invece sono tutto pieno di angoli e privo di personalità. E si stancò di essere due più, che tutti lo sanno e anzi quando vogliono dire una cosa che sanno tutti dicono: “Quanto fa due più due?”. Sognava di essere un numero lungo e difficile, di quelli che te li dimentichi sempre e se li vuoi sommare devi prendere carta e matita.

Certo era un bel problema, perché non è che il quattro volesse diventare un altro numero, che so io?, il cinque o il 1864372. Lui voleva essere lui, rimanere se stesso, eppure voleva anche essere come il cinque, dispari cioè, o come il 1864372 numero lungo e difficile. E sembra proprio che il quattro non possa essere dispari, e non possa essere lungo e difficile, oppure non sarebbe il quattro. Sarebbe un’altra cosa, e lui non voleva essere un’altra cosa: voleva esser lui, solo un po’ diverso.

Un problema così il quattro non sapeva risolverlo. Forse non aveva neanche una soluzione. Se ce l’aveva, però, il Grande Matematico doveva saperla. Così il quattro andò dal Grande Matematico e gli espose il suo caso. Il Grande Matematico sorrise. Anche lui una volta avrebbe voluto essere diverso: non un altro, ovviamente, perché voleva rimanere se stesso, ma un po’ più simile al Grande Ballerino, o al Grande Tennista, o al Grande Centravanti. Anche lui quindi aveva avuto il problema del quattro e sapeva come affrontarlo. Lo fece accomodare per terra (una sedia sarebbe proprio stata inutile!) e cominciò a parlargli.

“Vedi, quattro – disse – non c’è bisogno di diventare diverso, di essere dispari per esempio, oppure lungo e difficile. Non c’è bisogno perché tu sei già diverso, anche se non te ne rendi conto. A te sembra di essere una stupida sediolina che fa due più due e tutti lo sanno, e invece ci sono in te cose che nessun altro numero ha, cose molto speciali. Per esempio, tu sei due più due ma anche due per due e anche (qui andiamo sul difficile) due alla seconda. E questo è un fatto del tutto straordinario: tre più tre non è anche tre per tre, e certo non è tre alla terza. Oppure prendi quest’altra; quattro per quattro sommato a tre per tre fa cinque per cinque, il che vuol dire che tre,quattro e cinque sono una famiglia di numeri pitagorici consecutivi, e di famiglie così non ce ne sono altre. Il sette, che tu ammiri tanto, non ne ha una. Oppure….”.

Ma a questo punto il quattro era un po’ confuso e pregò il Grande Matematico di smettere. Quella faccenda dei numeri pitagorici non la capiva proprio e voleva pensarci su, perché gli sembrava importante. Se ne andò, e da allora è sempre lì che conta. Ha capito i numeri pitagorici e molte altre cose ancora, e ogni giorno scopre di essere più diverso.

 

 

Pensare: riflessioni dal passato e dal presente

„Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos’è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni. […] Perciò dobbiamo prima chiederci che cosa desideriamo; poi considerare per quale strada possiamo pervenirvi nel tempo più breve, e renderci conto, durante il cammino, sempre che sia quello giusto, di quanto ogni giorno ne abbiamo compiuto e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando a ciò verso cui il nostro naturale istinto ci spinge.
Finché vaghiamo a caso, senza seguire una guida ma solo lo strepito e il clamore discorde di chi ci chiama da tutte le parti, la nostra vita si consumerà in un continuo andirivieni e sarà breve anche se noi ci daremo giorno e notte da fare con le migliori intenzioni. Si stabilisca dunque dove vogliamo arrivare e per quale strada, non senza una guida cui sia noto il cammino che abbiamo intrapreso, perché qui non si tratta delle solite circostanze cui si va incontro in tutti gli altri viaggi; in quelli, per non sbagliare, basta seguire la strada o chiedere alla gente del luogo, qui, invece, sono proprio le strade più frequentate e più conosciute a trarre maggiormente in inganno.
Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l’andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione.“
— Lucio Anneo Seneca, libro De vita beata
I sec. dC
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Socrate diceva: “Non so niente, proprio perchè se non so niente problematizzo tutto”. La filosofia nasce dalla problematizzazione dell’ovvio: non accettiamo quello che c’è, perchè se accettiamo quello che c’è, lo ricorda Platone, diventeremo gregge, pecore. Ecco: non accettiamo quello che c’è.
La filosofia nasce come istanza critica, non accettazione dell’ovvio, non rassegnazione a quello che oggi va di moda chiamare sano realismo. Mi rendo conto che realisticamente uno che si iscrive a filofosia compie un gesto folle, però forse se non ci sono questi folli, il mondo resta così com’è… così com’è. Allora la filosofia svolge un ruolo decisamente importante, non perchè sia competente di qualcosa, ma semplicemte perchè non accetta qualcosa.  E questa non accettazione di ciò che c’è non la esprime attraverso revolverate o rivoluzioni, l’esprime attraverso un tentativo di trovare le contraddizioni del presente e dell’esistente, e argomentare possibilità di soluzioni: in pratica, pensare. E il giorno in cui noi abdichiamo al pensiero abbiamo abdicato a tutto.
– Umberto Galimberti, Incontro Intellego -Percorsi di emancipazione democrazia ed etica  Copertino, 25 gennaio 2008

La scienza perduta della preghiera

Estratto da: ” La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden   – Macro Edizioni

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“Dentro di noi esistono forze selvagge e meravigliose”.

Con queste parole San Francesco d’Assisi descrisse il mistero e il potere che convivono nell’animo di ciascun uomo, donna e bambino della Terra. Rumi, il poeta sufi, ha descritto la grandezza di quel potere, paragonandolo a un fantastico remo che ci spinge lungo il flusso della vita. “Se anche voi come me porrete all’opera la vostra anima su questo remo” egli esordì “ il potere che ha creato l’universo entrerà nelle vostre membra non da una fonte esterna, bensì da un regno celeste che dimora in ciascuno di noi”.

Attraverso il linguaggio della poesia, Rumi e San Francesco esprimono un concetto che va oltre la natura ordinaria dell’esperienza quotidiana. Con le parole del loro tempo, ci ricordano ciò che gli antichi definivano come la più grande forza dell’universo, il potere che ci unisce al cosmo. Oggi conosciamo quel potere col nome di “preghiera”. Parlando della preghiera, San Francesco disse semplicemente: “Il risultato della preghiera è la vita”. La preghiera ci dà vita, egli affermava, perché “ irriga la terra e il cuore”.

La conoscenza è il ponte che ci unisce a tutti quelli che hanno vissuto prima di noi. Civiltà dopo civiltà, vita dopo vita, le storie personali di ciascuno confluiscono nella storia collettiva dell’umanità. Tuttavia, a prescindere dal livello di conservazione delle informazioni tramandateci dal passato, le parole di quelle storie si limitano a restare dei semplici “dati” finché noi non riusciamo a dotarle di significato. Infatti, è proprio il modo in cui applichiamo nella vita quelle conoscenze antiche, a trasformarsi in saggezza nel presente.

Per migliaia di anni, ad esempio, i nostri predecessori ci hanno tramandato la conoscenza della preghiera, del perché funziona e dell’uso che possiamo farne. I nostri avi hanno affidato a templi imponenti e a tombe nascoste la potente forma di conoscenza insita nella preghiera, grazie a linguaggi e costumi che hanno subito ben pochi mutamenti nel corso degli ultimi cinquemila anni. Ma il segreto non si cela nelle parole che compongono le preghiere. Proprio come la portata di un programma informatico va al di là del linguaggio in cui è scritto, anche noi dobbiamo cercare una dimensione più profonda nella preghiera, per comprendere il reale potere che ci attende in essa, quando vi ricorriamo. […].

Per scatenare quelle che San Francesco aveva definito come le “forze meravigliose e selvagge” che risiedono in noi e per trovare le giuste condizioni in cui il desiderio più profondo del nostro cuore possa diventare realtà, dobbiamo comprendere il rapporto che intratteniamo con noi stessi, con il mondo e con Dio. La conoscenza necessaria per farlo ci è data dalle parole che ci giungono dal passato. Nella sua opera Il Profeta, Kahlil Gibran ci ricorda che nessuno può insegnarci cose che già sappiamo. Egli afferma: ”Nessuno può rivelarvi ciò che sonnecchia nell’alba della vostra conoscenza”. È molto sensato ritenere che, racchiuso in noi, esista già un potere che ci consente di comunicare con la forza che determina la nostra esistenza! Per fare questo, tuttavia, dobbiamo scoprire chi siamo veramente. […]

Per quanto molteplici culture e stili di vita possano apparire superficialmente diversi, nel profondo siamo tutti alla ricerca delle stesse cose: un lembo di terra da chiamare casa, una soluzione per provvedere ai bisogni della famiglia e un futuro migliore per noi e per i nostri figli. Vi sono anche altre due domande che persone di tutte le culture mi pongono spesso, direttamente o attraverso i traduttori. La prima è semplicemente questa: “Cosa sta succedendo al nostro mondo?”. La seconda è: “Cosa possiamo fare per migliorare le cose?”. La risposta a entrambi i quesiti sembra essere imbevuta di un’unica consapevolezza, che si rifà alla visione moderna della preghiera e, nel contempo, alle più antiche e rispettate tradizioni spirituali del passato.