Estratto da “Da Avere a Essere” di Erich Fromm – Oscar Mondadori
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Altro impedimento nell’apprendimento dell’arte di vivere è la presunzione che sia possibile una vita senza fatica e sofferenza. La gente è convinta che tutto – persino il compito più arduo – possa essere risolto con uno sforzo minimo o nullo. Questa opinione è così diffusa, che non necessita di ulteriori delucidazioni. Basta considerare i nostri metodi educativi: noi persuadiamo, anzi supplichiamo i nostri giovani perchè si facciano una cultura; in nome della “espressione di sé”, di un orientamento contrario al “rendimento”, della “libertà” strutturiamo ogni corso propedeutico nella maniera più semplice e piacevole. […]
Le cause di questo trend sono facilmente intuibili. Il crescente fabbisogno di personale tecnico ausiliario, insomma di gente poco istruita da impiegare nei servizi pubblici o nel terziario, richiede persone con un sapere superficiale, come sono per l’appunto i diplomati sfornati dalle nostre scuole e università. Secondariamente, tutto il nostro sistema sociale si basa sul principio fittizio per cui nessuno è obbligato a svolgere il lavoro che in effetti svolge. La sostituzione di un’autorità ben identificabile con un’autorità anonima si manifesta in tutti i campi della vita: non c’è più costrizione; tutto viene avallato pretestuosamente dal consenso, e il consenso viene ottenuto con i metodi della suggestione di massa. Conseguentemente, anche lo studio non è più inteso come un obbligo forzato, ma come un gradevole passatempo; e ciò è tanto più vero nei settori professionali nei quali, nell’ottica sociale, non sia richiesto un sapere serio e rigoroso.
L’idea che lo studio non richieda fatica ha tuttavia un’altra ragione: il progresso tecnico ha effettivamente ridotto la quantità di energia fisica necessaria in passato per la produzione di beni. Con la prima rivoluzione industriale il lavoro fisico, sia dell’uomo che degli animali, fu sostituito con il lavoro meccanico eseguito dalle macchine, mentre la seconda rivoluzione industriale, in seguito all’introduzione dei grandi computer, ha fortemente alleggerito lo sforzo mentale, in particolare quello mnemonico. L’affrancamento dal lavoro duro viene salutato come il dono più apprezzabile del “progresso” moderno. Potrebbe costituire realmente un “regalo”, ma a una condizione: che l’energia umana, liberatasi in questo modo, trovi utilizzo in un impegno creativo più alto. Ma non è così.
La liberazione assicurata dalla macchina ha sviluppato l’ideale della pigrizia illimitata, sicchè ogni sforzo effettivo appare come un incubo e uno spauracchio. Vivere bene equivale a una vita senza sforzo; la necessità di doversi affaticare viene considerata, piuttosto, un ultimo relitto medievale, al quale ci si sottopone per forza maggiore, non già volontariamente. Così si prende l’automobile per andare a fare la spesa semplicemente per risparmiare la fatica di camminare, anche quando il negozio si trova a due passi da casa; e il bottegaio, a sua volta, usa la calcolatrice per addizionare tre numeri e non affaticare la mente.
Affine all’opinione secondo la quale sarebbe possibile vivere senza fatica, è l’errore di escludere la sofferenza dalla vita. Anche questo ha una caratteristica fobica: si tratta di evitare a ogni costo dolore e patimenti di natura fisica e, soprattutto, psichica. È l’epoca del progresso moderno che promette all’uomo di guidarlo nella Terra Promessa dell’esistenza indolore; ne consegue che molti individui avvertono una sorta di paura cronica per la sofferenza. Il termine “dolore” è qui usato in un’accezione assai ampia, quindi non solo in senso fisico e psichico. È anche doloroso esercitare quotidianamente, per ore e ore, scale musicali al pianoforte o occuparsi di un argomento poco interessante, ma persino in questi casi l’impegno, e quindi la fatica, sono indispensabili per acquisire le necessarie conoscenze tecniche. È doloroso starsene seduti al tavolo a studiare quando si preferirebbe incontrare la propria ragazza o, se non altro, andare a spasso e divertirsi in compagnia di amici. Sono piccoli dolori, è vero, tuttavia occorre essere disposti ad accettarli di buon grado e non controvoglia se si vuole imparare a concentrarsi su ciò che è essenziale e se si desidera progredire nel campo in cui si riconosce il valore. Quanto alle sofferenze ben più gravi, va detto che la felicità è prerogativa di pochi mentre la sofferenza è il destino di tutti gli uomini. Tuttavia la sofferenza è il denominatore comune nella vita di ciascun uomo. La solidarietà infatti ha una delle sue radici più robuste nell’esperienza che i dolori individuali sono condivisibili.