Estratto da: “Il bisogno di pensare” di Vito Mancuso – Ed. Garzanti
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Quanti anni avete? Diciassette, ventuno, cinquantacinque, ormai quasi sessanta, o forse sono già ottanta? Qualunque età abbiate, io vi chiedo qual è il vostro punto di orientamento in questa vita che scorre, che viene da una bianca sorgente che non conosciamo e va verso un mare nero che conosciamo ancor meno. Io, alla mia età, ancora mi chiedo a cosa affidarmi per trovare direzione e sostegno, perché di un sostegno ho bisogno, questo è sicuro, questo lo sento, a volte con un dolore sottile e penetrante che mi pervade tutto il corpo, specialmente la sera. Anche voi l’avvertite talora, o non sapete neppure di cosa parlo? Mi capite, o pensate che io sia solo un disadattato cui concedere un sorriso di circostanza?
A prescindere però dall’impressione che vi faccio, la mia domanda rimane. Dopo aver scoperto il principio della leva Archimede dichiarò: “Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo”. Ebbene io vi chiedo: quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana? Oppure non ve ne curate? Oppure preferite stare bassi, rasoterra, a volte persino strisciare, perchè si fa meno fatica e non c’è pericolo di cadere?
Voi mi direte di farmi i fatti miei. Io però insisto e pongo la questione anche dal punto di vista dinamico chiedendo: lo sai in base a cosa ti muovi? Lo sai verso quale scopo dirigi la tua energia vitale? Sei consapevole del metodo con cui affronti la vita e del fine che vi persegui? Lo sai qual è il criterio del tuo procedere in equilibrio sulla fune della vita? Alcuni considerano questi discorsi filosofemi irritanti, altri si sentono sprofondare nella noia al solo sentirli. Conosco l’obiezione: “Vivere! A me basta vivere, seguire il mio istinto e quello che mi va! Che me ne faccio di tutte queste teorie?”. Molti la pensano così, l’aveva già osservato Goethe quando scrisse a proposito della vita: “Tutti la vivono, non molti la conoscono”. Schopenhauer al suo solito era ancora più tagliente: “Se si considera attentamente quanto grande e palese sia per noi il problema dell’esistenza, di questa esistenza ambigua, tormentata, fuggevole e simile al sogno[…] e se poi si osserva come tutti gli uomini – tranne alcuni pochi e rari – sembrano non rendersi conto di questo problema, anzi non esserne affatto cosapevoli, bensì preoccuparsi di tutto meno che di esso […] se si riflette bene a ciò, io dico, si può cominciare a credere che l’uomo si chiami essere pensante soltanto in un senso assai lato della parola”.
Non c’è nulla di strano quindi, anzi nulla di originale, nel fastidio provato da molti di fronte al tentativo di indagare il senso del nostro essere qui: per chissà quante migliaia di anni siamo stati raccoglitori e cacciatori, e anche adesso lo siamo, raccogliamo e cacciamo denaro-piaceri-emozioni nutrendo in questo modo il nostro istinto vitale. Così è del tutto secondo copione che per alcuni le filosofie e le spiritualità siano solo una seccatura, e che esista unicamente la voglia di vivere e basta, senza tanti pensieri.
Per qualcuno però non è così. Sarebbe interessante chiedersi come mai. Come spiegare questa distinzione tra chi si pone le domande esistenziali e chi no? Io non so cosa rispondere […] Mi vengono in mente le parole di Norberto Bobbio, quando, cogliendo a sua volta questa linea di divisione che attraversa il genere umano, affermò che secondo lui “la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”.