Estratto da ” Ricucire l’anima” di Erica Francesca Poli – Ed Mondadori
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Potrebbe sembrare un ossimoro, un paradosso: che cosa ci può essere di creativo nella sofferenza? E se la sofferenza fosse un passaggio per una nuova creazione? Non si liquefà forse il baco nel bozzolo per dare vita a una farfalla ? Non sembra marcire, contrarsi, spezzarsi il seme nelle sue cuticole per dare alla luce il germoglio? Non soffre la madre per partorire il figlio?
Chi supera il dolore cambia la propria identità, cambia se stesso, crea nuove forme, è colto da un impeto creativo, fa spesso della propria vita un’opera d’arte. L’artista estrae dal proprio dolore personale il distillato di un dolore del mondo e poi stilla bellezza da quella sofferenza.
In questo senso la vita è divina, poichè è in costante tensione creativa, e la creazione è in costante tensione di riconoscimento della fonte da cui proviene. Nell’atto della creazione Dio si rivela, esiste a se stesso come autocoscienza che genera.
C’è polvere di stelle nel nostro DNA. Il suono delle galassie giunge sino a noi, e oggi può essere registrato: la sinfonia dei pianeti, come la musica nella quale possono essere davvero tradotte le stesse sequenze di DNA. L’energia della stella Sole, che giunge sino al pianeta, brilla sulla vita fotosintetica che converte fotoni in materia, foglie, frutti. Scienza e Dio mai così vicini, dai tempi di Platone, Plotino, Ipazia. Non era forse lei, matematica e filosofa egiziana, ad ascoltare la musica dei pianeti? Senza una tecnologia sofisticata, ma con la raffinatezza di un pensiero che era già unione di astrofisica, matematica e filosofia.
Ipazia fu uccisa nel IV secolo da un’idea politica e dogmatica di fede, perchè credeva in una religione dell’anima. Eppure è proprio nella religione dell’anima che si trova l’estasi, ed è l’estasi, la capacità di stare in sé e uscire da sè, il movimento di non coincidenza con il limite, che più di tutto cura, che rivela il piccolo e il grande che incarniamo, la nostra essenza finita e infinita.
Un secolo prima di lei, Plotino ne parlava già: l’estasi come culmine delle possibilità umane, che dà senso, etica, valore all’individuo. Un viaggio a ritroso che il soggetto può compiere, a partire dalla ragione che abbandona la pretesa razionalista, lascia andare lo sguardo sull’oggetto e lo rivolge dentro di sè, alla ricerca della propria origine. Ripercorrendo la storia della sua emanazione, del suo sviluppo, il soggetto incontra il senso di un “principio”, che non può cogliere, non può possedere, ma che può lasciare che lo possegga.
Jacques Lacan lo definisce “l’Altro”, e l’Altro per antonomasia non può essere che il divino, che è ri-conosciuto perchè non è mai conosciuto, nel senso che si percepisce che è, lo si ritrova e, al tempo stesso, sfugge alla conoscenza, non lo si possiede. La sua mancanza origina il desiderio, l’afflato, la passione che anima una vita intera, e l’arte che corre intorno al vuoto con la bellezza. Quando la ragione smette di esercitare il suo limite e si abbandona alla possibilità di essere posseduta da qualcosa che la trascenda. Lo si chiami Dio, “Uno”, sacro, vita, poco importa.[…]
Ci sono infinite strade per favorire quell’istante magico: lo sguardo che contempla senza cercare di capire o di possedere, la scintilla oltre la porta socchiusa, un varco della coscienza nel senza tempo in cui il senso viene colto, ed ecco che la persona si riconnette al Sè, al mistero da cui proviene. Eppure nessuna funziona senza quell’abbandono che non è perdita della ragione, ma è il superamento di un limite. E tutte funzionano quando quell’abbandono arriva.