La nostra modalità perduta di preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

———————

Segue da “Dolore, benedizione, bellezza e preghiera”.

Viviamo in un mondo fatto di esperienze che mettono alla prova la nostra sensibilità e ci spingono ai limiti di ciò che è considerato accettabile da esseri razionali e capaci di amore quali noi siamo. Come provare emozioni collegate a un senso di pace e guarigione, mentre siamo testimoni di guerre e genocidi che avvengono al di là dei nostri confini e di fronte all’odio basato sulla diversità che si manifesta nelle nostre stesse comunità? È chiaro che dobbiamo trovare un modo per interrompere il circolo vizioso di dolore-sofferenza-rabbia-odio, se intendiamo trascendere le situazioni in cui ci troviamo.

Col linguaggio del loro tempo, le antiche tradizioni ci hanno tramandato istruzioni precise su come fare proprio questo! Quelle parole ci ricordano che “la vita” non è niente di più e niente di meno che uno specchio della nostra evoluzione interiore. La chiave per sperimentare la vita in quanto bellezza o dolore sta soltanto nella nostra capacità di impersonare queste qualità in ogni momento della giornata. Oggi un corpus crescente di prove scientifiche sta rafforzando sia l’attendibilità di questa forma di saggezza, sia l’importanza del nostro ruolo personale nell’alimentare la sofferenza o la guarigione del mondo.

Alcuni esperimenti svolti sul finire del XX secolo hanno confermato che siamo immersi in un campo di energia che collega tutti noi agli eventi che avvengono nel mondo. La ricerca ha dimostrato che grazie a questo campo energetico, al quale sono stati attribuiti i nomi più diversi, da Ologramma quantico a Mente di Dio, le convizioni e le preghiere che trovano posto dentro di noi sono trasmesse al mondo fuori di noi. Sia la scienza che le antiche tradizioni ci indicano lo stesso concetto: dobbiamo incarnare nella vita quotidiana le condizioni che desideriamo sperimentare nel mondo. Nascoste nelle più isolate e remote località che restano ancora sulla Terra, si trovano le istruzioni per praticare una modalità perduta di preghiera che ci aiuta proprio a fare questo.

Nella primavera del 1998 ho avuto l’onore di facilitare un pellegrinaggio durato ventidue giorni nei monasteri del Tibet centrale, ricercando le prove di una forma di preghiera antica e dimenticata – un linguaggio capace di parlare al campo che unisce tutte le cose. I monaci e le monache che vivono in quei luoghi hanno condiviso con noi le istruzioni riguardanti un modo di pregare che è andato largamente perduto in Occidente, a causa dei tagli imposti alla Bibbia dalla Chiesa paleocristiana. Conservata per secoli nei testi e nelle tradizioni dei popoli stanziati sul tetto del mondo, questa modalità “perduta” di preghiera non si basa nè sulle parole nè sull’esteriorizzazione. È fondata unicamente sulle emozioni.

In particolare, ci invita a evocare in noi stessi la sensazione che la nostra preghiera sia già stata esaudita, anzichè quella di sentirci inermi e bisognosi di aiuto da parte di una fonte superiore. In anni recenti, le ricerche hanno dimostrato che questa specifica qualità di sentimento riesce effettivamente a “parlare” con il campo che collega l’umanità con il mondo. Attraverso preghiere costituite da emozioni, possiamo riappropriarci del potere di contribuire alla guarigione della nostra vita e dei rapporti, oltre che quella del corpo fisico e del mondo.

Fare come gli Angeli…

La chiave di utilizzo di questo modo di pregare risiede nel riconosere il potere nascosto della bellezza, della benedizione, della saggezza e del dolore. Ognuno di questi stati gioca un ruolo imprenscindibile nell’arena più vasta che ci permette di sentire, imparare, lasciar andare e trascendere le nostre più profonde ferite. Le parole di un anonimo scriba che annotò gli insegnamenti di Gesù quasi duemila anni fa ci ricodano che sia il potere di cambiare il mondo, sia gli ostacoli che si frappongono fra noi e quella facoltà, risiedono entrambi dentro di noi. Gesù affermo semplicemente che “la cosa più difficile da fare [per gli esseri umani] è di pensare i pensieri degli angeli… e di fare come gli angeli”.

La preghiera rappresenta il linguaggio di Dio e degli angeli. È anche il linguaggio dato all’umanità per guarire le sofferenze della vita mediante il ricorso alla saggezza, alla bellezza e alla grazia. Oggi, apprendere il potere della preghiera su internet o su un’antica pergamena del primo secolo non fa differenza. Il messaggio è lo stesso: riuscire ad accettare la nostra capacità di usare quel linguaggio universale può rivelarsi la sfida maggiore della nostra vita. Allo stesso tempo, però, rappresenta anche la nostra maggiore fonte di forza. Quando non ci resterà più alcun dubbio sul fatto che sappiamo già parlare il linguaggio fatto di sentimenti di cui è costituita la preghiera, risveglieremo una parte di noi che nessuno ci potrà mai sottrarre, rubare o portare via. Questo è il segreto della scienza perduta della preghiera.

Gregg Braden – Taos, Novo Messico – 2006

 

 

 

Dolore, benedizione, bellezza e preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

—————————-

Racchiusa nel sapere di coloro che ci hanno preceduti, ritroviamo l’antica saggezza capace di ridare forza alle nostre preghiere di pace e guarigione. Dagli antichi scritti gnostici ed esseni alle tradizioni dei nativi di tutte le Americhe, il dolore, la benedizione e la bellezza sono concordemente riconosciuti come chiavi di sopravvivenza rispetto alle maggiori prove cui è sottoposta l’umanità. La preghiera è il linguaggio che ci permette di applicare le nostre lezioni di vita alle situazioni che viviamo.

Da questa prospettiva “saggezza” e “dolore” sono i due estremi della stessa esperienza, l’inizio e il completamento dello stesso ciclo. Il dolore si pone come sentimento iniziale, risposta istitntiva a una perdita, a un dispiacere o a notizie dei media che turbano la nostra sensibilità. La saggezza rappresenta l’espressione del dolore dopo la sua guarigione. Noi trasformiamo il dolore in saggezza, dando un nuovo significato alle esperienze dolorose. Benedizione, bellezza e preghiera sono gli strumenti di cambiamento di cui disponiamo.

Il reverendo Samuel Shoemaker, utopista cristiano del XX secolo, ha destritto il potere di trasformazione della preghiera con una semplice e poetica frase, forse ingannevolmente semplice: “La preghiera può non cambiare le cose per voi, – afferma – ma  sicuramente  cambia voi, nel modo in cui affrontate le cose”. Sebbene possa essere impossibile risalire nel tempo per eliminare la causa della nostra sofferenza, abbiamo in ogni caso il potere di assegnare un diverso significato alla perdita di una persona amata, allo sconvolgimento derivante dalla rottura di una promessa o ai dispiaceri della vita. Nel fare ciò, spalanchiamo le porte perfino alla guarigione dei nostri ricordi più dolorosi.

Senza aver compreso la relazione esistente fra la saggezza e le nostre ferite, la sopportazione del dolore potrebbe apparire priva di significato – perfino crudele – e prolungarsi, lasciando perennemente aperto quel circolo vizioso. Come possiamo dunque rimuovere noi stessi dal dolore abbastanza a lungo da poter discernere la saggezza contenuta nelle nostre esperienze di vita? Mentre lottiamo contro una perdita, una violazione di fiducia o un tradimento che ci sembravano impensabili anche solo poche ore o minuti prima, come possiamo dichiarare tregua alle nostre emozioni per il tempo necessario a sviluppare un diverso modo di sentire? Questo è il momento in cui fa la sua comparsa il potere della benedizione.

Benedire significa lasciare andare

“Ti benedico” è l’antico segreto che sospende l’esperienza del dolore quanto basta, per rimpiazzarla con un altro sentimento. Quando benediciamo le persone o le cose che ci hanno feriti, interrompiamo momentaneamente il ciclo del dolore. Non fa alcuna differenza che la sospensione duri un nanosecondo o una giornata intera. Qualunque ne sia la durata, l’atto di benedire ci spalanca una porta per cominicare a star meglio e voltare pagina. La chiave di tutto sta nel sollevarsi dal dolore per il tempo necessario a riempire il cuore e la mente con qualcos’altro. Quel qualcosa è il potere della “bellezza”.

La bellezza trasforma

Le tradizioni più sacre e antiche ci ricordano che la bellezza permea tutte le cose, a prescindere dal modo in cui le interpretiamo nella vita quotidiana. La bellezza è già creata ed è sempre presente. Per soddisfare il nostro mutevole concetto di equilibrio e di armonia possiamo modificare ciò che ci circonda, instaurare nuovi rapporti o trasferirci in altri luoghi, ma i tasselli che vanno a costituire quella nuova bellezza sono già al loro posto.

Al di là dell’apprezzamento rivolto a cose che sono semplicemente gradevoli allo sguardo, le antiche tradizioni di saggezza decrivono la bellezza come un’esperienza capace di influenzare anche il cuore, la mente e l’animo umani. Grazie alla nostra capacità di percepire la bellezza perfino nei momenti “più brutti” della vita, possiamo elevarci al di sopra del dolore per il tempo sufficiente a dargli un diverso significato. In tal modo la bellezza diventa un dispositivo capace di proiettarci in una nuova prospettiva. La chiave, tuttavia, sta nel fatto che la bellezza sembra essere dormiente, fino a che noi non concentriamo su di essa la nostra attenzione. La bellezza si risveglia soltanto quando è invitata nell’esistenza umana.

Segue….

Il sé illusorio

Estratto da “Un nuovo mondo” di Eckhart Tolle – Ed. Oscar Mondadori

 ———————————-

La parola “io” rappresenta, a seconda di come viene usata, il più grande errore o la verità più profonda. Nell’uso convenzionale, essa non solo è una delle parole adoperate più spesso nel linguaggio (insieme alle altre a essa collegate: “me”, “mio” e “me stesso”), ma anche una delle più fuorvianti. Nell’uso comune “io” rappresenta l’errore essenziale, una errata percezione di chi siete, un senso illusorio di identità. Questo è l’ego. Questo senso illusorio del sé è ciò a cui Albert Einstein, che aveva profonde intuizioni non solo sulla realtà del tempo e dello spazio ma anche sulla natura umana, si riferiva quando parlava di “un’illusione ottica della coscienza”.

Quel sé illusorio diventa la base per ogni altro modo di intendere – o meglio di fraintendere la realtà – con tutti i processi di pensiero, interazioni e relazioni.  La vostra realtà diventa un riflesso dell’illusione originaria.

La buona notizia è: se potete riconoscere l’illusione come tale, essa si dissolve. Il riconoscimento dell’illusione è anche la sua fine. La sua sopravvivenza è legata al fatto che la confondete con la realtà. Quando vedete quello che non siete, la realtà di chi siete emerge spontaneamente. Questo è ciò che succede mentre leggete lentamente e con attenzione questo capitolo e il successivo, che trattano dei meccanismi di quel falso sé chiamato ego. E allora qual è la natura di questo sé illusorio?

Quello a cui vi riferite quando dite “io” non è quello che voi siete. Con un mostruoso atto riduttivo, l’infinita profondità di quello che siete viene confusa con un suono prodotto dalle corde vocali, o con il pensiero dell'”io” nella vostra mente e con tutto quello con cui l'”io” si è identificato. Allora a cosa si riferisce quello che comunemente viene chiamato “io” e i termini a esso collegati “me” e “mio”?

Quando un bambino piccolo impara che quella sequenza di suoni prodotta dalle corde vocali dei genitori è il suo nome, allora comincia a far corrispondere una parola, che nella mente diventa un pensiero, a ciò che lui o lei è. In questo stadio alcuni bambini si riferiscono a se stessi in terza persona. “Giovanni ha fame”. Subito dopo imparano la parola magica “io” e la fanno corrispondere al proprio nome che hanno già fatto equivalere a chi sono. Poi vengono altri pensieri e si fondano all’originario pensiero dell'”io”. Il passo successivo sono i pensieri “me” e “mio” che in un modo o nell’altro indicano cose che sono parte dell'”io”. Questa è l’identificazione con gli oggetti, che significa sì attribuire un senso alle cose, ma sopratutto ai pensieri che rappresentano queste cose. Da questa identificazione nasce così un senso di identità. Quando il “mio” giocattolo si rompe o viene portato via nasce una grande sofferenza. Non perchè il giocattolo abbia un valore in se stesso – presto il bambino perderà ogni tipo di interesse ed esso sarà rimpiazzato da altri giocattoli, altri oggetti – ma a causa del pensiero “mio”. Il giocattolo diventa parte dello sviluppo del senso del sé o dell'”io”.

Così, man mano che il bambino cresce, l'”io pensiero originario” attrae a sé altri pensieri: comincia a identificarsi con un genere, con le cose che possiede, con il corpo percepito dai sensi, con la nazionalità, la razza, la religione, la professione. Si identifica anche con i ruoli – madre, padre, marito, moglie e così via – conoscenze o opinioni accumulate, simpatie e antipatie, e anche cose che sono successe a “me”, il cui ricordo sono pensieri che definiscono ancora di più il mio senso del sé, come “me e la mia storia”: Questi sono solo alcuni degli elementi da cui la gente ricava il proprio senso di identità. Alla fine non sono altro che pensieri tenuti insieme in maniera precaria dalla caratteristica di essere investiti da un senso del sé. A questa costruizione mentale vi riferite quando dite “io”. A essere precisi, spesso quando dite o pensate “io” non siete voi che parlate, ma è qualche aspetto di quella costruzione mentale, il “sé egoico”.

Una volta risvegliati, invece, userete ancora la parola “io”, ma verrà da uno spazio interiore più profondo.

La maggior parte delle persona sono totalmente identificate con un incessante flusso mentale di pensieri incontrollati, in gran parte ripetitivi e senza senso. Non esiste un “io” separato dai propri processi mentali e dalle emozioni che lo accompagnano. Questo è il senso di essere spiritualmente inconsapevoli. Quando si spiega a queste persone che nella loro testa c’è una voce che non smette mai di parlare, vi risponderanno: “Che voce?”, oppure negheranno astiosamente, e a parlare è proprio quella voce, è colui che pensa, è la mente non osservata. Si potrebbe quasi considerarla come un’entità che si è impossessata di loro.

Alcune persone non dimenticano mai la prima volta che si sono disidentificate dai loro pensieri, sperimentando così uno spostamento di identità dall’essere il contenuto della loro mente all’essere la consapevolezza che c’è dietro. Per altre si verifica in un modo tanto sottile che se ne accorgono appena, o avvertono soltanto un afflusso di gioia o di pace interiore, senza saperne il motivo.