Lucciole per lanterne, ovvero le aspettative

di Ermanna

Ci sono persone che vivono nell’eterna attesa che accada un determinato fatto: un nuovo amore, un nuovo lavoro, un figlio, un’eredità, una nuova vita…
Possiamo individuare queste aspettative nelle speranze, nei sogni ad occhi aperti, nei desideri che magari crediamo impossibili, ma che manteniamo vivi. Queste sono le aspettative che sappiamo di avere.

Poi ci sono quelle che ci impediscono di vivere pienamente un’esperienza, una relazione, la vita. Sono quei momenti in cui sentiamo l’amaro in bocca perché le cose non sono andate “bene”. Noi però non le chiamiamo aspettative, perché non crediamo che lo siano.

Da dove hanno origine? I nostri pensieri sono creatori di emozioni. Questo genere di aspettative si collocano nella nostra parte meno razionale. Se fossero razionali, vedremmo subito la loro inconsistenza e non ne soffriremmo. Sono nascoste molto bene, sono infide e ci tendono trappole quando meno ce lo aspettiamo.
È possibile vederle? Certamente, ma non basta aprire gli occhi. Occorre ascoltare la loro voce sibilante che ci induce a pensare: “Sicuramente andrà così!” oppure “Vedrai, non può essere diversamente”. Pensieri che ci mettono in uno stato di attesa nella certezza che andrà in quel modo.

Ci sono due tipi di aspettative. Il primo è quello che ci dà e darà sempre una delusione. L’altro è il tipo di aspettativa che si avvera sempre.
La prima, che ci fa sperare in una soluzione perfetta per noi, si può sintetizzare nella frase “Andrà tutto bene”, e ci fa aspettare gli eventi. Quando non accade ciò che prevedevamo, cadiamo nello sconforto e nella disillusione, per poi riprendere il nostro buon umore perché… quando si chiude una porta si apre un portone. E questa è un’aspettativa alimentata dalla convinzione (illusione) che arriveranno giorni migliori, e si rimane passivi.
La seconda tipologia, quella che si avvera sempre, è quella in cui i nostri pensieri sono orientati verso un’anticipazione di negazione, di rifiuto, di mancanza di realizzazione. La frase che diciamo dopo è “Lo sapevo che sarebbe andata a finire così!”. Questa modalità ci fa precipitare in una spirale discendente di cattivo umore e pessimismo. Conseguenza? Meglio non aspettarsi nulla, così non si resta delusi. Ancora uno stallo.

Siamo ora nel cuore delle aspettative che rendono annebbiata la vista, che fanno prendere  lucciole per lanterne. Le aspettative si nutrono delle nostre convinzioni: su noi stessi, sul nostro modo di vedere il mondo, di leggere le nostre relazioni. Si alimentano del nostro modo di valutare e dei nostri giudizi.

Giudicare è una facoltà più animale che umana. È capire istantaneamente se abbiamo davanti un “pericolo”. La capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, ha garantito la sopravvivenza a tutte le specie animali.

Noi esseri umani abbiamo affinato questa tecnica trasformandola in selettività, separando e catalogando le varie situazioni dapprima come cattive/buone, brutte/belle, sbagliate/giuste per noi.
In seguito abbiamo iniziato ad applicare la stessa selettività con le persone che abbiamo intorno, e di conseguenza con le dinamiche relazionali instaurate, inserendole in questi grandi schemi.
Se ciò che avviene accade per la prima volta, cerchiamo un’esperienza precedente che ce la ricordi, che le assomigli in qualche modo, per individuarne il potenziale pericolo. Avviene tutto a livello istintivo, immediato, senza che il pensiero razionale si metta in moto.
Questo è il principio su cui si è basato il giudizio: va bene per me oppure no? Mi distrugge o aiuta?

Cattivo/buono, brutto/bello, sbagliato/giusto sono aggettivi. I nomi sono la realtà, gli aggettivi sono attributi che noi applichiamo a quel nome, a quella realtà, a seconda di ciò che essa ha stimolato in noi.
Come già detto, i giudizi sono istintivi, non razionali. Sono loro che orientano la nostra visione della realtà e ci portano ad avere aspettative di un tipo o di un altro.
Se applichiamo il metro di misura dell’istintività al giudizio, non possiamo dire di essere oggettivi nel valutare una qualsiasi situazione o persona. Ci piace: ci aspettiamo solo cose positive; non ci piace: ci aspettiamo solo cose negative. Immancabilmente, in un modo o nell’altro, prima o poi, veniamo delusi. E la colpa è sempre là fuori.

La prerogativa più infida delle aspettative è quella di renderci non solo poco lucidi, ma anche immobili. Quando aspettiamo qualcosa, non agiamo, convinti che sia già in arrivo nel bene o nel male. Non facciamo nulla per andarle incontro, niente per evitarla. Questo potrebbe essere definito “fatalismo”, cioè accettare che le cose accadano senza tentare di cambiarle se non ci vanno bene.
È come se fossimo seduti su una panchina in stazione per aspettare il treno delle opportunità. I treni passano e noi li guardiamo e pensiamo: “Questo è un treno merci, no!”, “Questo non ha la carrozza ristorante”, “Questo è troppo vecchio”, “Qui c’è troppa gente”, … aspettiamo, aspettiamo e non saliamo su alcuno perché non è il treno giusto. Così rischiamo di passare la nostra stessa esistenza seduti su quella panchina in attesa del treno che vogliamo noi. Solo perché abbiamo delle aspettative sul tipo di treno su cui vogliamo salire.

In sintesi: le aspettative ci bloccano la vista e l’azione, non ci permettono di cogliere l’attimo delle opportunità, di ricevere un nuovo punto di vista, una nuova esperienza in tutta la sua singolarità e autenticità.
Ma quel che è peggio, è che le crediamo vere. Lucciole per lanterne.