Le parole che scegli plasmano il mondo

di Ermanna

 

Parlare bene non è solo questione di stile.
È pensare bene. È sentire bene. È vivere meglio.

 

 

Le parole sono FINESTRE.
Ogni volta che parli, mostri una parte di te. Nelle parole si cela il tuo mondo interiore, la tua sofferenza, i tuoi sogni, le tue convinzioni,… escono fuori, anche quando non te ne accorgi.
Ascolta come parli.
Le parole che usi per raccontarti dicono chi sei – anche a te stesso.

Le parole sono IMMAGINI.
Ogni parola che dici crea un’immagine nella mente di chi ascolta.
Perché allora non scegliere parole che creino belle immagini?
Che aprano e non chiudano!
Parole gentili. Parole potenti. Parole sentite!

Parlare è  agire.
C’è forza nella parola detta.
Un tempo, prima della scrittura, dire qualcosa significava impegnarsi. Era sacro.
Forse oggi non ci pensiamo, ma ogni parola che esce da noi muove qualcosa – in noi e negli altri.

Cambiare il modo in cui parli non è fingere.
È imparare a vedere diversamente.
Aprire finestre dove prima c’erano muri.
È iniziare un cambiamento che parte da dentro.

Scegli parole che costruiscono,
che curano,
che liberano.

Perché sì, parlare bene è un atto rivoluzionario.

Lucciole per lanterne, ovvero le aspettative

di Ermanna

Ci sono persone che vivono nell’eterna attesa che accada un determinato fatto: un nuovo amore, un nuovo lavoro, un figlio, un’eredità, una nuova vita…
Possiamo individuare queste aspettative nelle speranze, nei sogni ad occhi aperti, nei desideri che magari crediamo impossibili, ma che manteniamo vivi. Queste sono le aspettative che sappiamo di avere.

Poi ci sono quelle che ci impediscono di vivere pienamente un’esperienza, una relazione, la vita. Sono quei momenti in cui sentiamo l’amaro in bocca perché le cose non sono andate “bene”. Noi però non le chiamiamo aspettative, perché non crediamo che lo siano.

Da dove hanno origine? I nostri pensieri sono creatori di emozioni. Questo genere di aspettative si collocano nella nostra parte meno razionale. Se fossero razionali, vedremmo subito la loro inconsistenza e non ne soffriremmo. Sono nascoste molto bene, sono infide e ci tendono trappole quando meno ce lo aspettiamo.
È possibile vederle? Certamente, ma non basta aprire gli occhi. Occorre ascoltare la loro voce sibilante che ci induce a pensare: “Sicuramente andrà così!” oppure “Vedrai, non può essere diversamente”. Pensieri che ci mettono in uno stato di attesa nella certezza che andrà in quel modo.

Ci sono due tipi di aspettative. Il primo è quello che ci dà e darà sempre una delusione. L’altro è il tipo di aspettativa che si avvera sempre.
La prima, che ci fa sperare in una soluzione perfetta per noi, si può sintetizzare nella frase “Andrà tutto bene”, e ci fa aspettare gli eventi. Quando non accade ciò che prevedevamo, cadiamo nello sconforto e nella disillusione, per poi riprendere il nostro buon umore perché… quando si chiude una porta si apre un portone. E questa è un’aspettativa alimentata dalla convinzione (illusione) che arriveranno giorni migliori, e si rimane passivi.
La seconda tipologia, quella che si avvera sempre, è quella in cui i nostri pensieri sono orientati verso un’anticipazione di negazione, di rifiuto, di mancanza di realizzazione. La frase che diciamo dopo è “Lo sapevo che sarebbe andata a finire così!”. Questa modalità ci fa precipitare in una spirale discendente di cattivo umore e pessimismo. Conseguenza? Meglio non aspettarsi nulla, così non si resta delusi. Ancora uno stallo.

Siamo ora nel cuore delle aspettative che rendono annebbiata la vista, che fanno prendere  lucciole per lanterne. Le aspettative si nutrono delle nostre convinzioni: su noi stessi, sul nostro modo di vedere il mondo, di leggere le nostre relazioni. Si alimentano del nostro modo di valutare e dei nostri giudizi.

Giudicare è una facoltà più animale che umana. È capire istantaneamente se abbiamo davanti un “pericolo”. La capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, ha garantito la sopravvivenza a tutte le specie animali.

Noi esseri umani abbiamo affinato questa tecnica trasformandola in selettività, separando e catalogando le varie situazioni dapprima come cattive/buone, brutte/belle, sbagliate/giuste per noi.
In seguito abbiamo iniziato ad applicare la stessa selettività con le persone che abbiamo intorno, e di conseguenza con le dinamiche relazionali instaurate, inserendole in questi grandi schemi.
Se ciò che avviene accade per la prima volta, cerchiamo un’esperienza precedente che ce la ricordi, che le assomigli in qualche modo, per individuarne il potenziale pericolo. Avviene tutto a livello istintivo, immediato, senza che il pensiero razionale si metta in moto.
Questo è il principio su cui si è basato il giudizio: va bene per me oppure no? Mi distrugge o aiuta?

Cattivo/buono, brutto/bello, sbagliato/giusto sono aggettivi. I nomi sono la realtà, gli aggettivi sono attributi che noi applichiamo a quel nome, a quella realtà, a seconda di ciò che essa ha stimolato in noi.
Come già detto, i giudizi sono istintivi, non razionali. Sono loro che orientano la nostra visione della realtà e ci portano ad avere aspettative di un tipo o di un altro.
Se applichiamo il metro di misura dell’istintività al giudizio, non possiamo dire di essere oggettivi nel valutare una qualsiasi situazione o persona. Ci piace: ci aspettiamo solo cose positive; non ci piace: ci aspettiamo solo cose negative. Immancabilmente, in un modo o nell’altro, prima o poi, veniamo delusi. E la colpa è sempre là fuori.

La prerogativa più infida delle aspettative è quella di renderci non solo poco lucidi, ma anche immobili. Quando aspettiamo qualcosa, non agiamo, convinti che sia già in arrivo nel bene o nel male. Non facciamo nulla per andarle incontro, niente per evitarla. Questo potrebbe essere definito “fatalismo”, cioè accettare che le cose accadano senza tentare di cambiarle se non ci vanno bene.
È come se fossimo seduti su una panchina in stazione per aspettare il treno delle opportunità. I treni passano e noi li guardiamo e pensiamo: “Questo è un treno merci, no!”, “Questo non ha la carrozza ristorante”, “Questo è troppo vecchio”, “Qui c’è troppa gente”, … aspettiamo, aspettiamo e non saliamo su alcuno perché non è il treno giusto. Così rischiamo di passare la nostra stessa esistenza seduti su quella panchina in attesa del treno che vogliamo noi. Solo perché abbiamo delle aspettative sul tipo di treno su cui vogliamo salire.

In sintesi: le aspettative ci bloccano la vista e l’azione, non ci permettono di cogliere l’attimo delle opportunità, di ricevere un nuovo punto di vista, una nuova esperienza in tutta la sua singolarità e autenticità.
Ma quel che è peggio, è che le crediamo vere. Lucciole per lanterne.

Ricercatori o esploratori?

di Ermanna

Si potrebbe suddividere l’umanità in due macro-aree:  i ricercatori e gli esploratori. Qual è la distinzione tra i due termini?

I ricercatori  sono coloro i quali investigano per trovare qualcosa che confermi le loro ipotesi e teorie, le loro aspettative e desideri, i loro punti di vista e opinioni. Perseverano fino a quando non trovano quello che “cercano”, incessantemente,  senza tregua, scartando ciò che ritengono non sia importante o in linea con l’oggetto della ricerca. E spesso non arrivano al dunque, se non dopo molto, molto tempo, o adattano il risultato per farlo aderire il più possibile al loro obiettivo.

Gli esploratori sono coloro che partono alla ventura. Si muovono nel campo senza cercare nulla di specifico, osservano quello che hanno intorno, lo vivono, lo assaporano. Qualsiasi cosa si presenti non ne erano in attesa, non l’hanno cercata. In questo modo la accolgono per ciò che è, con semplicità.
E proprio quando non c’è alcuna aspettativa e non si cerca nulla in particolare, qualcosa accade. Una sorpresa che desta meraviglia riempiendo il cuore, che desta stupore riempiendo la mente. E sempre, sempre, si trova  in essa uno spunto, uno stimolo, un’occasione, una nuova amicizia, una nuova visione, un nuovo mondo. Basta solo rimanere aperti e guardare.

Il ricercatore nasce dalla mente razionale, rigorosa, logica. È ancorato al passato con cui si nutre tramite i ricordi e le esperienze pregresse, attraverso il confronto costante. Il ricercatore pone il passato davanti, al posto del futuro, e su di esso basa la sua ricerca.

L’esploratore è la manifestazione della mente creativa, duttile, analogica. È ricettivo, libero di muoversi senza vincoli o schemi. Per lui tutto è nuovo. L’esploratore non ha pietre di paragone, ha lo sguardo non diretto al passato o al futuro, ma attento al presente, al qui e ora. Per questo non ha alcuna aspettativa e non rimane deluso o frustrato.

E noi dove ci collochiamo? Più nella ricerca o più nell’esplorazione?

Ognuno può scegliere come usare la mente. Entrambi gli aspetti sono necessari per la sopravvivenza e la vita quotidiana, tuttavia è opportuno farne un uso consapevole.

La mente razionale è utile e necessaria per organizzare, predisporre, agire per e nella materia, come gli impegni, i doveri e le responsabilità. È preziosa nella nostra relazione con il mondo del Fare e dell’Avere.

La mente creativa, e creatrice, è fondamentale sempre. È l’unica via che abbiamo per rimanere flessibili, disponibili ad accogliere non solo gli eventi e gli altri, ma anche noi stessi. Questa capacità ci permette di esplorare il nuovo, sia dentro sia fuori di noi, senza pregiudizi, preconcetti e aspettative. È, quindi, l’espressione del mondo dell’Essere.

La cosa migliore, come sempre, è trovare la giusta sinergia tra queste facoltà, senza che l’una prenda il sopravvento sull’altra nel momento meno opportuno. Ma, soprattutto, è importante che la nostra parte esploratrice sia sempre attiva, aperta e curiosa, così da attuare il “Carpe diem” dei latini e di vivere l’attimo in pienezza.

Rispondere di se stessi

Estratto da “Le vostre zone erronee” di Wayne W. Dyer – Edizioni BUR Rizzoli

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Vòltati. Vedrai una compagna che ti segue costantemente. In mancanza di un nome migliore, chiamala Morte.  È la tua  Morte. Puoi averne paura, oppure servirtene a tuo vantaggio. Sta a te la scelta.

Poiché la morte non finisce mai di riproporsi, e la vita è di una brevità che toglie il fiato, domandati: “Dovrei forse evitare di fare le cose che voglio veramente fare?”, “Dovrei forse vivere la mia vita come vogliono gli altri?”, “È importante accumulare cose?”, “La vita è veramente tutta un rinvio?”. Le probabilità sono che le tue risposte si riassumano in poche parole: Vivere… Essere… Godere… Amare.

Puoi temere la morte, inutilmente, senza alcun frutto: oppure puoi servirtene per aiutarti a imparare a vivere bene. Ascolta l’Ivan Il’ic di Tolstoj mentre, in attesa della “grande livella” riguarda un passato che era stato interamente dominato dagli altri, una vita nella quale aveva rinunciato alla padronanza di sé per adeguarsi a un sistema:

“ …e se davvero tutta la mia vita, la mia vita cosciente, non fosse stata ‘come doveva’?”    Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. Gli era venuto in capo che i suoi timidissimi tentativi di ribellione a ciò che la gente altolocata stimava il bene tentativi che subito aveva soffocato in sé, – che essi soli potessero essere giusti, e tutto il resto fosse sbagliato. Il suo ufficio, il suo modo di vivere, e la famiglia, e gli interessi mondani e professionali, – tutto poteva essere sbagliato. S’era provato a difendere davanti a se stesso quelle cose. E a un tratto aveva sentita tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere. (*)

La prossima volta che devi decidere se prenderti carico di te stesso o meno, se fare o meno la tua scelta, poniti questa importante domanda: “ Quanto manca alla mia morte?” Con questa continua prospettiva, puoi ora compiere la tua scelta e lasciare a quelli che non muoiono mai i crucci, i timori, il dubbio se te la puoi permettere o meni, e il senso di colpa. 

Se non fai questo passo, puoi prevedere di vivere la tua intera vita come gli altri dicono che devi viverla. Ma se il tuo soggiorno sulla terra è così breve, fa’ che almeno sia piacevole. In una parola, è la tua vita; falla come tu la vuoi.

 

(*) L.Tolstoj “ La Morte di Ivan Il’ič” – Ed. Rizzoli, Milano 1976 pp. 85-86

La magia di un abbraccio

Estratto da: “Poesie d’Amore E Di Vita”  di Pablo Neruda – Edizioni Guanda

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“Quanti significati sono celati dietro un abbraccio?
Che cos’è un abbraccio se non comunicare, condividere e infondere qualcosa di sé ad un’altra persona?
Un abbraccio è esprimere la propria esistenza
a chi ci sta accanto, qualsiasi cosa accada,
nella gioia e nel dolore.

Esistono molti tipi di abbracci,
ma i più veri ed i più profondi
sono quelli che trasmettono i nostri sentimenti.

A volte un abbraccio,
quando il respiro e il battito del cuore diventano tutt’uno,
fissa quell’istante magico nell’eterno.
Altre volte ancora un abbraccio, se silenzioso,
fa vibrare l’anima e rivela ciò che ancora non si sa
o si ha paura di sapere.

Ma il più delle volte un abbraccio
è staccare un pezzettino di sé
per donarlo all’altro
affinché possa continuare il proprio cammino meno solo.”