La procrastinazione – 2

Estratto da  “L’arte di passare all’azione” di Gregg Krech – Edizione Giunti

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Parte prima

Il prezzo che pagano gli altriLinda Anderson Kreck – parte seconda

Il Karma delle cose incompiute  – Finora abbiamo esaminato le conseguenze del brutto vizio di fare le cose all’ultimo minuto. Ma quali sono gli effetti delle azioni che restano incompiute?

Almeno in alcuni casi, qualcun altro sopperirà alla nostra mancanza: se si tratta di una faccenda domestica come portare fuori il sacchetto dell’umido o piegare il bucato, il coniuge o i figli possono pensarci  al nostro posto; se si tratta di un progetto di lavoro, un collega potrebbe essere costretto ad aggiungerlo a una lista di incarichi già molto lunga.

Il più delle volte causiamo meno problemi agli altri dicendo subito di no anziché prendendo un impegno al quale poi non terremo fede. Lo so, è tutt’altro che facile. Occorre una generosa dose di sana e realistica capacità di giudizio, che è una dote piuttosto rara. Le buone intenzioni non attenuano l’impatto della nostra negligenza. In alcune circostanze, l’incombenza resta semplicemente incompiuta, alimentando risentimento, frustrazione e delusione.

Le giustificazioni – Per quanto possiamo essere efficienti e volenterosi, saremo sempre vulnerabili rispetto a ciò che è incontrollabile e imprevedibile. Quando meno ce lo aspettiamo, possono presentarsi eventi che sfuggono al nostro controllo, interferendo anche con la programmazione più accurata. Possiamo gestire solo un numero limitato di variabili, e gli imprevisti sono sempre in agguato.

Perciò, per quanto possibile, dobbiamo mettere in conto i contrattempi. Non possiamo prevedere tutto, ma alcune cose sì. Se riserviamo ventidue minuti a un tragitto di ventidue minuti sui mezzi pubblici, non prendiamo in considerazione eventuali intoppi. Calcolare margini di tempo risicati equivale ad “andarsela a cercare”. Aspettare l’ultimo minuto è una ricetta sicura per il fallimento.

Che lo vogliamo oppure no, gli altri dipendono da noi. Siamo tutti legati uno all’altro perché le nostre vite, famiglie e comunità sono intrecciate in una rete compatta. Quando veniamo meno ai nostri doveri, questa struttura si deforma, e nemmeno la giustificazione più valida aiuta coloro che si trovano all’estremità opposta e che sono costretti loro malgrado a subire la situazione. La soluzione migliore è chiedere scusa, vedere quale insegnamento possiamo trarne e andare avanti.

Cosa posso imparare? A fare scelte più realistiche, ad ammettere che le cose richiedono molto più tempo del previsto e a organizzarmi di conseguenza. Se non mi decido a cambiare, gli altri continueranno a pagare con me il prezzo di questi errori.

Scovate i demoni, dunque. Dategli al caccia con il massimo impegno. Siate consapevoli del vostro impatto sulle altre persone. Ricordate che la vita è breve. Guardate il quadro generale. Passate all’azione e fate ciò che è da fare.

 

 

La procrastinazione – 1

Estratto da  “L’arte di passare all’azione” di Gregg Krech – Edizione Giunti

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Il prezzo che pagano gli altriLinda Anderson Kreck – parte prima

Cambiare è difficile, anzi difficilissimo. Anche quando abbiamo ben chiara l’esigenza di modificare il nostro stile di vita, possiamo ricadere nelle vecchie abitudini in men che non si dica. Le nostre impostazioni predefinite hanno la storia dalla loro parte e sono alimentate da anni di uso inveterato. Non è facile.

Prendete la procrastinazione, per esempio. Molti di noi preferiscono subire le conseguenze e le scocciature che derivano da questo brutto vizio piuttosto che affrontare il disagio e la difficoltà di correggere le proprie abitudini. D’accordo. È il nostro karma, la nostra vita. Tocca a noi decidere, giusto? Sì, la scelta ricade sulle nostre spalle e spetta soltanto a noi.  I suoi effetti, tuttavia, sono un altro paio di maniche. Spesso non siamo le uniche vittime delle nostre scelte irresponsabili e di pessima gestione del tempo. I nostri fatti e misfatti quotidiani si ripercuotono su coloro che conosciamo e anche su persone che non conosceremo mai. A darci uno scossone ogni tanto è la consapevolezza di quanto sia vera questa affermazione. Questa verità può spingerci al di fuori della zona di sicurezza come la sofferenza personale non riuscirebbe mai a fare. Non è fantastico? Ricordare l’impatto che possiamo avere sugli altri nei momenti decisivi può aiutarci a scrivere una storia diversa per noi stessi.

La frettaForse ci siamo messsi all’opera in ritardo o abbiamo sottovalutato il tempo necessario. Oppure eravamo distratti, stanchi o dell’umore sbagliato. Alla fine abbiamo rispettato gli impegni presi, ma non siamo stati puntuali.

Se restiamo indietro con un incarico o un progetto, è molto probabile che negli ultimi giorni o minuti schiacciamo l’acceleratore nel tentativo di recuperare il tempo perduto, e nei momenti spasmodici in cui cerchiamo di comprimere il lavoro nelle poche ore rimaste, i rapporti con gli altri possono farsi tesi e fragili. I piccoli contrattempi, come una distrazione o un’interruzione inaspettata, possono diventare insolitamente irritanti, sfociando in attriti con chi ci circonda. Essendo contagiosa, l’energia frenetica può rendere irritabili anche gli altri. Quando abbiamo fretta aumentano anche i problemi di comunicazione, perché toni e parole si fanno più nervosi. È difficile essere una buona compagnia quando si ha l’acqua alla gola.

Paradossalmente, dopo aver tagliato il traguardo, non è raro incappare in una serie di nuovi problemi, fastidiosi per noi stessi e per gli altri. Durante il periodo di recupero dal rush finale dobbiamo affrontare la situazione che abbiamo creato quando avevamo fretta. Per esempio, se non abbiamo calcolato bene il tempo necessario per fare i bagagli e organizzarci per le vacanze, al rientro troviamo la casa sottosopra a causa dei preparativi convulsi. Più abbiamo premura, e più ci concentriamo sull’obiettivo trascurando tutto il resto.

La negligenza che nasce dalla fretta può assumere molte forme: smarriamo le chiavi, rovesciamo il caffè, dimentichiamo il cellulare, superiamo il limite di velocità. Vari intoppi possono metterci i bastoni tra le ruote mentre tentiamo di guadagnare qualche minuto e di raggiungere puntualmente l’obiettivo.

L’attesa Ecco una domanda insidiosa. Un quarto d’ora è più lungo quando si aspetta qualcuno che è in ritardo o quando siamo noi a fare aspettare qualcuno?

Obiettivamente, il lasso di tempo è identico ma, quando riuscite a districarvi dai mille impegni della vita e ad arrivare puntuali a un appuntamento (lasciando molte cose a metà), la consapevolezza dell’incapacità o della scarsa disponibilità altrui a fare lo stesso sforzo può essere irritante.

Quando costringiamo qualcuno ad aspettarci, non abbiamo rispetto per la sua vita, e il tempo è il bene più prezioso che abbiamo. Anche se l’altro ci attende di buon grado, anche se riesce a sfruttare quegli istanti e a ridurre la scocciatura al minimo, stiamo ugualmente rubando un frammento della sua esistenza.

Effetto domino Immaginate che un giorno io esca di casa in ritardo per un appuntamento dal dentista la mattina presto. Mi riprometto di chiamare la segretaria lungo il tragitto in modo che possa riorganizzare l’agenda, ma solo una volta in auto scopro di avere il telefono scarico. Come se non bastasse, mi trovo imbottigliata nel traffico per colpa di un cantiere. Morale della favola, arrivo tardissimo. Non possiamo sapere quali ripercussioni il nostro ritardo abbia sul mondo. Non vediamo il suo impatto mentre investe altre persone nell’arco della giornata. Può darsi che io abbia procurato dei problemi al dentista, per esempio mettendolo in uno stato di tensione o costringendolo a far aspettare altri pazienti, il che potrebbe rovinargli la reputazione. Forse ho messo in difficoltà pazienti che dovevano ritornare al lavoro, e questo potrebbe aver avuto un effetto sui loro colleghi e clienti. Quando siamo in ritardo, possiamo cadere uno sull’altro come tessere del domino, dando il via a una sequenza di eventi di cui non verremo mai a conoscenza pur essendone responsabili.

(segue)

Osservare senza valutare

Estratto da “Le parole sono finestre (oppure muri)” di M.Rosenberg – Ed. Esserci

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Posso sopportare che tu mi dica quello che ho fatto e quello che non ho fatto.                    E posso sopportare le tue interpretazioni, ma ti prego di non confondere le due cose.

Se vuoi complicare qualsiasi questione ti posso dire come puoi fare:                          confondi quello che faccio con il modo in cui tu vi reagisci.

Dimmi che sei frustrato per i lavori che non porto a termine,                                             ma chiamarmi “irresponsabile” non è certo un modo per motivarmi.

E dimmi che ti senti triste quando dico di “no” alle tue proposte,                                          ma dirmi che sono un uomo freddo e insensibile non aumenterà le tue possibilità.

Sì, posso sopportare che tu mi dica quello che ho fatto o che non ho fatto,                        e posso sopportare le tue interpretazioni, ma ti prego di non mescolare le due cose.

Perché la nostra vita è vuota?

Estratto da “Sull’Amore e la Solitudine” – J. Krishnamurti, Ed. Astrolabio

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Bombay, 12 febbraio 1950     
[…]  Perché la nostra vita è vuota? Siamo attivissimi, scriviamo libri andiamo al cinema, ci divertiamo, amiamo e lavoriamo, eppure la nostra vita è vuota, noiosa, semplice routine. Perché i nostri rapporti sono così sciatti, vuoti e insignificanti? Conosciamo la nostra vita abbastanza bene per sapere che la nostra esistenza ha davvero scarso significato: citiamo frasi e idee che abbiamo sentito da altri, che cosa ha detto questo e quello, che cosa hanno detto i mahatma, i santi contemporanei e i santi dell’antichità. Se non seguiamo una guida religiosa, ne seguiamo una politica o intellettuale. […]
Siamo come dischi incisi, e chiamiamo conoscenza quella che è semplice ripetizione. Impariamo qualcosa, lo ripetiamo, e la nostra vita rimane profondamente sciatta, vuota, squallida. Perché? Perché succede questo? Perché abbiamo assegnato tanta importanza al pensiero? Perché la mente è diventata così preponderante (idee, pensieri, la capacità di razionalizzare, di soppesare, di paragonare, di calcolare)? Perché abbiamo dato alla mente una così enorme importanza? Non sto dicendo che dovremmo diventare degli irriflessivi, degli emotivi e sentimentali. Ma avvertiamo il vuoto della nostra vita, questo enorme senso di frustrazione. Perché questa piattezza, questa superficialità? Potremo capirlo solo esaminando il nostro modo di agire nei rapporti.

Cosa accade realmente nei nostri rapporti? Più che rapporti, non sono isolamenti? Qualunque attività della mente non è forse rivolta alla propria salvaguardia, sicurezza e difesa? Il pensiero, che definiamo processo collettivo, non è invece un processo di isolamento? Ogni nostra azione non è forme un atto di auto-reclusione? […] Tutte le nostre azioni mirano all’isolamento, ed è questo che crea il senso di vuoto. Sentendoci vuoti, cerchiamo di riempire il vuoto con la radio, il rumore, le chiacchiere, i pettegolezzi, la lettura, l’acquisizione di conoscenze, la rispettabilità, il denaro, la posizione sociale, e così via. Sono tutte componenti del processo di isolamento, e perciò non fanno altro che rafforzarlo. Per quasi tutti gli uomini la vita vuol dire isolamento, chiusura, resistenza, conformità ad un modello. È un processo senza vita, e di qui deriva il senso di vuoto, di frustrazione. Amare significa essere in comunione con l’altro non solo in parte, ma totalmente, integralmente, generosamente. Ma noi non conosciamo questo amore. Per noi, l’amore è solo una sensazione: la sensazione dei miei figli, di mia moglie, delle mie proprietà, delle mie nozioni, dei miei successi. Sempre lo stesso processo di isolamento. La vita è una serie di chiusure, è una spinta mentale ed emotiva all’isolamento, e solo occasionalmente entriamo in comunione con gli altri. Ecco da dove nasce l’enormità del problema.

Questa è la realtà della nostra vita (rispettabilità, proprietà e vuoto), da cui nasce la domanda: come andare oltre? Come superare questa solitudine, questo vuoto, questa pochezza, questa povertà interiore? Credo che la maggior parte di noi non voglia superarli. La maggioranza degli uomini è soddisfatta così. Cercare un altro modo di vivere è troppo faticoso, e così preferiamo rimanere come siamo: ecco il vero problema. Ci siamo circondati di sicurezze, ci siamo circondati di muri che ci fanno sentire al sicuro. Ma, di tanto in tanto, cogliamo un sussurro al di là del muro: un terremoto, una rivoluzione, una scossa che soffochiamo subito. La maggior parte di noi non vuole andare al di là del processo di auto-reclusione, e al massi cerchiamo un sostituto, la stessa cosa in una forma diversa. La nostra insoddisfazione è molto superficiale, una nuova sicurezza, una nuova protezione, che è sempre il solito processo di isolamento. Ciò che in realtà vogliamo non è andare oltre l’isolamento, ma rafforzarlo per renderlo il più possibile custodito e protetto. Sono pochi quelli che vogliono aprire una breccia per vedere che cosa c’è al di là del nostro senso di vuoto, di solitudine. Chi cerca soltanto un sostituto del vecchio troverà certamente qualcosa da cui far dipendere la sua nuova sicurezza, ma altri vorranno spingersi oltre, e noi andremo con loro.

– segue “Al di là della solitudine”

 

Idee che pensiamo, idee che ci possiedono

Estratto da ” I miti del nostro tempo” di Umberto Galimberti – Ed. Feltrinelli

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Introduzione

Conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie dell’anima, quasi per nulla le malattie della mente. Eppure, anche le idee della mente si ammalano, talvota si irrigidiscono, talvolta si assopiscono, talvolta, come le stelle, si spengono. E siccome la nostra vita è regolata dalle nostre idee, di loro dobbiamo aver cura, non tanto per accrescere il nostro sapere, quanto piuttosto per metterlo in ordine.

La prima figura d’ordine è la problematizzazione di certe idee che per ragioni biografiche, culturali, sentimentali o di propaganda, sono così radicate nella nostra mente da agire in noi come dettati ipnotici che non sopportano alcuna critica, alcuna obiezione. E non perchè siamo rigidi o dogmatici, ma perchè non le abbiamo mai messe in discussione, non le abbiamo mai guardate da vicino. Chiamiamo queste idee miti, mai attraversati dal vento della de-mitizzazione.

A differenza delle idee che pensiamo, i miti sono idee che ci possiedono, e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fatica a far giungere il ruo raggio. E questo perchè i miti sono idee semplici che noi abbiamo mitizzato perchè sono comode, non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola ci rassicurano, tolgiendo ogni dubbio alla nsotra visione del mondo che, non più sollecitata dall’inquietudine delle domande, tranquillizza le nostre coscienze beate che, rimunciando al rischio dell’interrogazione, confondono la sincertià dell’adesione con la profondità del sonno.

Ma occorre risvegliarci dalla quiete che le nostre idee mitizzate ci assicurano, perchè molte sofferenze, molti disturbi, molti malessei nascono non dalle emozioni di cui si fa carico la psicoterapia, ma dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono di comprendere il mondo in cui viviamo, e soprattutto i suoi rapidi cambiamenti, di cui i media quotidianamente ci informano senza darci un discernimento critico che ci consenta di intravedere quali idee nuove dobbiamo escogitare per capirlo. E tutti sappiamo che essere al mondo senza capire in che mondo siamo, perchè disponiamo solo di idee elementari a cui restimao arroccati per non smarrirci, è la via regia per estraniarci dal mondo, o per essere al mondo solo come spettatori straniti, quando non distratti, o disinteressati, o addirittura incupiti.

Per recuperare la nostra presenza al mondo, una presenza attiva e partecipe, dobbiamo rivisitare i nostri miti, sia quelli individuali sia quelli collettivi, dobbiamo sottoporli a critica, perchè i nostri problemi sono dentro la nostra vita, e la nostra vita vuole che si curino le idee con cui la interpretiamo, e non solo le ferite infantili ereditate dal passato che ancora ci trasciniamo.

Critica è una parola che rimanda al greco Krìno, che vuol dire “giudico”, “valuto”, “interpreto”. Ogni giudizio, ogni valutazione comportano una crisi delle idee che finora hanno regolato la nostra vita, e che forse non sono più idonee ad accompagnarci nella comprensione di un mondo che si trasforma anche senza la nostra collaborazione. Chi non ha il coraggio di aprirsi alla crisi, rinunciando a quelle idee-mito che finora hanno diretto la sua vita, non guadagna in tranquillità, ma si espone a quell’inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta.

Ma forse l’orientamento vuole proprio una de-mitizzazione dei miti un tempo funzionali e oggi dis-funzionali alla comprensione del mondo, vuole un radicale superamento dell’inerzia della mente, della sua passività, per un pensiero avventuroso che sappia liberarsi delle idee stantie, per incontrare le idee nuove, da non bruciare sul nascere, ma con le quali intrattenersi, perchè le idee sono fragili come cristalli, ma talvolta cariche di una forza capace di distruggere le nostre abitudini mentali.

Non sempre sono “idee chiare e distinte” come voleva Cartesio, spesso sono solo abbozzi di interpretazioni, che però consentono alla mente di allargare i suoi orizzonti, e a noi di diventare più tolleranti, perchè più aperti e più capaci di comprendere, quindi divivere.

Milano, 6 settembre 2009