Giudizio e ascolto

Estratto da “Le parole sono finestre(oppure muri) di Marshall Rosenberg – Ed.Esserci

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Mi sento così condannata dalle tue parole,
mi sento giudicata e allontanata,
prima ancora di aver capito bene.
Era questo che intendevi dire?

Prima che io mi alzi in mia difesa,
prima che parli con dolore o paura,
prima che costruisca un muro di parole,
dimmi, ho davvero compreso bene?

Le parole sono finestre, oppure muri,
ci imprigionano o ci danno la libertà.
Quando parlo e quando ascolto,
possa la luce dell’amore splendere attraverso me.

Ci sono cose che ho bisogno di dire,
cose che per me significano tanto,
se le mie parole non servono a chiarirle,
mi aiuterai a liberarmi?

Se sembra che io ti abbia sminuito,
se ti è parso che non mi importasse,
prova ad ascoltare, oltre le mie parole,
i sentimenti che condividiamo.

Ruth Bebermeyer

Sulla gentilezza

Questo articolo è uscito il 20 febbraio 2009, a pagina 38 nel numero 783 di Internazionale.    L’originale era uscito sul Guardian. In Italia Adam Philipps e Barbara Taylor hanno pubblicato Elogio della gentilezza (Ponte alle Grazie). Le illustrazioni sono di Alessandro Gottardo, in arte Shout.

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La gentilezza, disse l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità. Nel corso dei secoli altri pensatori e scrittori hanno espresso lo stesso parere. Oggi, invece, molte persone pensano che questa idea sia inverosimile o, quanto meno, molto sospetta. Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.                                                                                                                                               La gentilezza è diventata un piacere proibito. In un certo senso è sempre rischiosa, perché si fonda sulla sensibilità nei confronti degli altri e sulla capacità di identificarsi con i loro piaceri e con le loro sofferenze. Ma anche se il piacere della gentilezza è rischioso, è una delle cose più appaganti che abbiamo. […]

Testo integrale:  https://www.internazionale.it/notizie/adam-phillips/2018/05/31/gentilezza

Ascolta

 (Autore ignoto)

Quando ti chiedo  di  ascoltarmi  e  tu  inizi  a darmi  il  tuo  parere,  non  fai  ciò  che  ti  ho chiesto.

Quando  ti  chiedo  di  ascoltarmi  e  tu inizi a spiegarmi perchè non dovrei provare ciò che provo, calpesti la mia sensibilità.

Quando  ti  chiedo di ascoltarmi  e  tu  pensi  di  doverti  adoperare  per  risolvere  il  mio problema, mi hai frainteso per quanto strano possa sembrarti.

Ascolta! Chiedo soltanto di essere ascoltato. Non parlarmi, non agire…ascoltami soltanto.  I consigli? Roba scadente. Con pochi soldi potrai trovarli su qualsiasi rotocalco. Io posso farcela da solo. Non sono indifeso. Avvilito si, forse anche esitante, ma non sono privo di risorse.

Quando  fai  per  me  ciò  ch’io  potrei  fare  da me,  aggravi i miei timori e il mio senso di inadeguatezza.  Ma  quando  semplicemente  acccetti  che  io  provo  ciò  che provo, per quanto assurdo possa sembrarti, allora posso smettere  di  convincere  te  e  adoperarmi   per capire cosa cova sotto questo mio sentimento irrazionale.

E  quando  finalmente  colgo  l’invisibile  anche  le  risposte  si palesano e non mi servono consigli.  I  sentimenti  irrazionali  acquistano  significato  quando  si  comprende  ciò  che nascondono.

Forse è per questo che la mia preghiera funziona a volte, con alcuni…perchè Dio è muto   e non dà consigli. Non corregge.  Lui (o Lei)  ascolta soltanto  e  ti lascia fare il tuo lavoro   per arrivare a comprendere da solo.

Dunque, ti prego, ascolta e senti ciò che dico e se anche tu vuoi parlarmi, lasciami finire. Aspetta, tra un attimo sarà il tuo turno e allora sarò io ad ascoltarti.

Il giusto tipo di educazione

Estratto da  “Educare alla vita”  di Jiddu Krishnamurti – Edizioni Oscar Mondadori

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Non è ignorante chi non  ha  studiato,  ma  chi  non conosce se stesso;  anche  una persona  istruita  è stolta se per raggiungere la comprensione si  affida solo ai libri, al sapere e  all’autorità  altrui.   La com-prensione  giunge  solo  con la conoscenza  di  sé,  cioè  con la consapevolezza  del  proprio processo psicologico nella sua totalità. L’educazione, nel suo significato più alto, é la comprensione di sé, perché dentro ciascuno di noi è contenuta tutta l’esistenza.

Quello  che  ora  definiamo   “educazione”   é  solo  un  accumulo   di   informazioni  e  di conoscenze libresche: per acquisirle é sufficiente saper leggere. Un’educazione di questo tipo ci offre un’abile  via di fuga da noi stessi,  ma come tutte le fughe  anch’essa  genera inevitabilmente infelicità. Confusione e conflitto sono il risultato del rapporto sbagliato che abbiamo con le persone, le cose e le idee, e finché non capiamo  questo  rapporto e non lo modifichiamo, il sapere, la raccolta di dati o  un’acquisizione di abilità diverse ci fa solo sprofondare nel caos e nella distruzione.

Per come è organizzata ora la società, mandiamo a scuola i nostri  figli  perché  imparino delle tecniche con cui un giorno potranno guadagnarsi da vivere. Prima di tutto vogliamo che diventino degli specialisti, sperando così di garantire loro una  posizione  economica sicura. Ma coltivare una tecnica ci rende davvero capaci di capire noi stessi?

Certo  è  necessario  saper  leggere  e  scrivere,  e anche imparare un mestiere,  diventare ingegneri o altro,  ma la tecnica ci dà forse la capacità di comprendere la vita? Essa non è la cosa più importante e se diventa  l’unico  bene  per  cui  lottiamo,  vuol  dire che stiamo negando la parte più importante dell’esistenza.

La vita è gioia, dolore, bellezza, bruttezza, amore,  e  quando  la   comprendiamo nella sua totalità, a tutti livelli, allora la nostra comprensione crea la sua propria tecnica. Ma non vale il contrario: la tecnica non è mai in grado di generare una comprensione creativa.

[…] Se coltiviamo la capacità e l’efficienza senza comprendere la vita, senza la percezione totale delle modalità  del  pensiero  e del desiderio,  diventiamo sempre più spietati, provo-chiamo guerre  e  mettiamo a  repentaglio  la  nostra  stessa  vita. Lo studio esclusivo della tecnica ha prodotto scienziati, matematici,  ingegneri,  astronauti,  ma  davvero  essi  com-prendono processo globale dell’esistenza? Uno specialista in grado di sperimentare la vita nella sua totalità? Di certo solo quando smette di essere uno specialista.

Il progresso tecnologico risolve alcuni tipi di problemi per un dato numero di persone  e  a un certo livello, ma genera anche problematiche più profonde e più ampie. Vivere a un solo livello,  ignorando il processo totale della vita, comporta infelicità  e  distruzione.  Il bisogno più grande di ogni individuo, il suo problema più urgente, é quello di  avere  una  compren-sione  integrale  della  vita che  lo  aiuti  ad  affrontarne  la  complessità  sempre crescente.

Il sapere tecnico, benché necessario, non risolverà in alcun modo i nostri conflitti o il nostro disagio psicologico;  ed  è  proprio  perché  abbiamo  acquisito  un  sapere  tecnico  senza comprendere il processo totale dell’esistenza  che la tecnologia è diventata uno strumento di distruzione.  L’uomo  che  sa  scindere l’atomo, ma non ha l’amore nel cuore diventa un mostro.

[…] Il lavoro  può  tenerci  occupati  per  quasi  tutta l’esistenza, ma gli oggetti che  produ-ciamo e che ci mandano in estasi  sono gli stessi  che  causano  distruzione  e  miseria.  I nostri atteggiamenti e i nostri valori fanno dei beni materiali e delle professioni gli strumenti di invidia, amarezza e odio.

Senza la comprensione di sé, il lavoro genera solo frustrazione  e  il desiderio inevitabile di evadere anche attraverso comportamenti nocivi.  […] Il  progresso  tecnologico è meravi-glioso,  ma  ha  di  fatto  accresciuto  la  nostra  capacità  di  distruggerci   a  vicenda,  e dappertutto c’è fame miseria. Non siamo felici né in pace.

Quando  il  dovere  diventa  la  cosa  più importante,  la  vita si fa monotona e noiosa, una routine  sterile  e  meccanica  da  cui  cerchiamo  di  fuggire  distraendoci.  L’accumulo  di conoscenze  e  lo sviluppo  di  abilità,  che  chiamiamo  educazione,  ci  ha  privato  della pienezza di una vita e di un comportamento integri. Poiché non capiamo il processo totale dell’esistenza ci aggrappiamo all’efficienza e alla capacità,  che assumono così un’impor-tanza spropositata.  Ma  la  parte  non  può  farci  comprendere  il  tutto,  che può essere abbracciato solo con l’azione e l’esperienza.

Un altro aspetto dell’istruzione tecnica é che essa ci dà un senso di sicurezza,  non  solo economica, ma anche psicologica; é rassicurante sapere che siamo  capaci  ed  efficienti. Saper suonare il piano o  costruirsi  la  casa  ci  dà  un  senso  di  vitalità,  di indipendenza aggressiva;  ma  dare  enfasi  eccessiva  le  proprie  abilità  per  un  desiderio di sicurezza psicologica significa negare la pienezza della  vita.  Non  si  può  prevedere  cosa  essa ci riservi, dobbiamo farne esperienza momento  per  momento;  ma  noi  temiamo l’ignoto, e così definiamo spazi psicologici di sicurezza sotto forma di sistemi, tecniche e dottrine. Finché cerchiamo la sicurezza interiore non possiamo capire il processo della vita nella sua totalità.

Il giusto tipo di educazione,  pur  incoraggiando  l’apprendimento  di  tecniche,  dovrebbe realizzare un fine molto più  importante: aiutare l’individuo a sperimentare il processo inte-grale della vita. Solo così la capacità e la tecnica trovano la loro giusta collocazione. Se si ha davvero qualcosa da dire, il fatto stesso di dirlo crea un suo stile  proprio; ma imparare uno stile senza l’esperienza interiore produce solo superficialità.

Ovunque  ci  si  affanna  a progettare macchine che non abbiano bisogno dell’uomo  per funzionare.  In un mondo governato quasi interamente dalle macchine, che ne sarà degli esseri umani?  Avremo sempre più tempo libero senza sapere come impiegarlo in  modo costruttivo e cercheremo di evadere attraverso il sapere, i divertimenti futili o gli ideali.

Si sono scritti tantissimi libri sull’educazione ideale, eppure siamo più confusi che mai.  Non esiste un metodo per  educare  un  bambino a essere  libero e integro.  Finché  ci preoccupiamo dei principi, degli ideali e dei metodi,  non aiutiamo l’individuo a liberarsi dall’egocentrismo con il suo carico di paure e conflitti.

Gli ideali e i programmi per un’utopia perfetta non produrranno mai il mutamento radicale del cuore, essenziale per porre fine alla guerra e alla distruzione universale.  Gli ideali non possono trasformare  i  nostri valori attuali, il cambiamento può venire  solo  grazie  a  un giusto  tipo di educazione, che deve favorire la comprensione di ciò che è.

Quando lavoriamo insieme per un ideale, per il futuro,  formiamo  gli  individui  secondo  il concetto che abbiamo in mente; non siamo affatto interessati  agli  esseri umani, ma solo alla nostra idea di come dovrebbero essere. Come una persona dovrebbe essere diventa molto più importante  di  come è realmente, con tutte le sue complessità. Se cominciamo comprendere  l’individuo  direttamente, invece di considerarlo per come dovrebbe essere secondo noi,  allora siamo interessati a ciò che è.  A  questo  punto non vogliamo più  tra-sformarlo in qualcosa d’altro; la nostra preoccupazione principale diviene quella di aiutarlo a comprendere se stesso, senza motivazioni  o vantaggi personali.  Se siamo  pienamente consapevoli di ciò che è,  allora possiamo comprenderlo ed esserne liberi; ma per essere consapevoli di ciò che siamo, dobbiamo smettere di affannarci per ciò che non siamo.

Gli ideali non hanno posto nell’educazione  perché  ostacolano  la  comprensione del pre-sente: possiamo diventare consapevoli di ciò che è solo se non ci rifugiamo nel futuro. Guardare al futuro, lottare per un ideale, indica pigrizia mentale e il desiderio di  evitare il presente.

Inseguire un’utopia preconfezionata non equivale  forse  a  negare  la  libertà  e  l’integrità dell’individuo? Quando seguiamo un ideale, uno schema, una formula che ci indicano ciò che  dovrebbe  essere,  non  viviamo  una  vita  superficiale e da automi?  Non  abbiamo bisogno di idealisti o di menti meccaniche,  ma  di  persone integre, intelligenti e libere. Il progetto di una società perfetta ci porta solo a batterci e a spargere sangue per ciò che dovrebbe essere, mentre continuiamo a ignorare ciò che è.

[…] Tra ora e il futuro vi è un intervallo immenso durante il quale subiremo molte influenze, e se sacrifichiamo il presente per il futuro stiamo usando mezzi sbagliati per un fine  forse anche giusto.  Ma i  mezzi determinano il  fine,  e  poi  chi  siamo  noi  per  decidere cosa dovrebbe essere una persona?  Con  che  diritto  cerchiamo  di  plasmarla secondo  uno schema preciso, appreso dai  libri o determinato dalle nostre ambizioni, dai nostri timori o dalle nostre speranze?

Il tipo  giusto  di  educazione  non  è  interessato  ad  alcuna ideologia, per quanto questa possa promettere un’utopia futura; non si basa su un sistema, neanche se è stato vagliato con cura; non è neppure uno strumento per condizionare l’individuo in un modo particola-re.  Educare  nel  vero  senso  del termine significa aiutare una persona a essere matura e libera, e a fiorire in amore e bontà.
[…]   Solo l’amore ci permette di capire l’altro.  Dove  c’è  amore  c’è  anche  comunione immediata, sullo stesso piano e simultaneamente.

 

Ascoltare significa…

Estratto da :  “L’arte di andare avanti”  di Jorge Bucay –  Ed. Rizzoli Etas

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Abbiamo due orecchie e una sola bocca
per ricordarci che dobbiamo ascoltare il doppio e
parlare la metà.                                   Talmud

 

Il passo successivo del nostro cammino verso il cambiamento e il miglioramento si può semplicemente sintetizzare con queste parole: “impara ad ascoltare“. E a un primo impatto non dovrebbe sembrarci neanche tanto difficile. Tuttavia per molti di noi non sarà così semplice. […] Siamo nati e cresciuti circondati da presunti “tuttologi” che credono di sapere tutto e che devono diffondere racconti di eroi o incredibili gesta che appartengono solo a loro. Siamo troppo abituati a incontrare a ogni angolo della città una persona innamorata del proprio discorso.
Questa è la ragione per cui la maggior parte delle persone con cui ho avuto a che fare, per compiere questo passo, dovrebbe incominciare con un gesto che, per quanto banale, è stato poco esercitato e quasi mai insegnato. È necessario “iniziare” ad ascoltare.

Ascoltare significa ASCOLTARE.
E non solo fare una pausa nel discorso e permettere che, mentre recupero il fiato, l’altro possa pronunciare un paio di parole.

Ascoltare significa ASCOLTARE.
E non si tratta di un’attenta e selettiva ricerca nei discorsi altrui delle parole che mi servono per agganciare “con arte” il mio argomento. Come se una conversazione dovesse essere un incontro con un compagno che mi espone le sue idee per permettermi di diffondere il mio personale pensiero.

Ascoltare significa ASCOLTARE.
E non è sinonimo di cedere temporaneamente il microfono a un altro che prima non avete nemmeno ascoltato.

Io sto parlando dell’attiva e rischiosa arte dell’ascolto che consiste nel comprendere e analizzare ciò che l’altro ha detto, sia che mi trovi d’accordo sia che mi trovi in disaccordo, con la consapevolezza che quelle parole sono rivolte a me, in uno specifico momento storico della sua vita. A me.

Hugh Prather nel suo libro “Palabras a mì misto” (Parole a me stesso) scrive:
“Nessuno è mai in errore,
caso mai gli manca un pezzo di informazione“.

E io aggiungerei:
“Senza contare su quella parte di informazione, e rifiutandomi di accettare che ho delle lacune, non crederò di stare commettendo un errore e lo difenderò con la certezza di colui che sa di avere ragione“.

Come lo stesso Prather raccomanda, sarebbe bene che, a meno di non essere troppo interessato a mostrarmi superiore, mi concentrassi ad ascoltare ciò che l’altro dice, per ricevere quella piccola informazione che si suppone mi manchi.
Se è veramente così (e chiunque la pensi in questo modo non può che accettare tale realtà), per quale motivo ci costa tanto aprirci ad ascoltare in maniera così libera e sincera? Perché poniamo tanta resistenza prima di aprire le nostre orecchie e il nostro cuore a ciò che le persone vogliono dirci?

[…] Non fossilizziamoci sulle nostre opinioni, convincendoci che sono certezze assolute e assiomi fondamentali. Perché in questo caso…
O… stimiamo più del dovuto ciò che conosciamo e disprezziamo quello che ignoriamo.
O… ci rifugiamo in quello che abbiamo imparato nella nostra gioventù e ci vergogniamo di accettare di fronte a noi stessi e di fronte agli altri che stiamo sbagliando.
O… opponiamo resistenza ad alcune verità che non ci conviene accettare o che ci causano dolore.
O… siamo capaci di mettere insieme tutte queste cose, ogni volta che incontriamo una persona.

[…] E per superare questo ostacolo non si può prescindere dall’ascoltare quello che gli altri ci fanno notare e le ipotesi di miglioramento che ci propongono. Molte volte è l’unico modo per renderci conto di quegli aspetti del nostro essere di cui non riusciamo ad acquisire consapevolezza.