Il mondo come lo vedo io

Estratto da: “Il mondo come lo vedo io” di Albert Einstein – Riflessioni dal 1934 al 1955 – Parte prima

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IL SENSO DELLA VITA

Qual è il senso della vita, o della vita organica in generale?
Rispondere a questa domanda implica comunque una religione. Mi chiederete, allora, ha un senso porla? lo rispondo che l’uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili priva di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita.

IL MONDO COME LO VEDO IO

Quale straordinaria situazione è quella di noi mortali! Ognuno di noi è qui per un breve soggiorno; non sa per quale scopo, sebbene talvolta pensi di percepirlo. Ma dal punto di vista della vita quotidiana, senza approfondire ulteriormente, noi esistiamo per i nostri consimili ­ in primo luogo per quelli che ci rendono felici con i loro sorrisi e il loro benessere e, poi, per tutti quelli a noi personalmente sconosciuti ai cui destini siamo legati dal vincolo della solidarietà. Cento volte al giorno, ogni giorno, io ricordo a me stesso che la mia vita, interiore ed esteriore, dipende dal lavoro di altri uomini, viventi o morti, e che io devo sforzarmi per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto e continuo a ricevere. Sono fortemente attirato dalla vita semplice e spesso sono oppresso dalla sensazione di assorbire una quantità superflua del lavoro dei miei consimili. Considero le differenze di classe contrarie alla giustizia e, in caso estremo, basate sulla forza. Considero altresì che la vita semplice faccia bene a tutti, fisicamente e mentalmente.

Non credo assolutamente nella libertà dell’uomo in senso filosofico. Ognuno agisce non solo sotto stimoli esterni, ma anche secondo necessità interne. L’affermazione di Schopenhauer che «un uomo può fare come vuole, ma non può volere come vuole», è stata un’ispirazione per me fin dalla giovinezza, e una continua consolazione e inesauribile sorgente di pazienza di fronte alle difficoltà della vita, mia e degli altri. Tale sentimento mitiga pietosamente il senso di responsabilità che così facilmente diventa paralizzante e ci garantisce dal prendere noi e gli altri troppo sul serio; conduce a una visione della vita in cui l’ “umorismo” sopra ogni altra cosa, ha il peso dovuto.

Indagare sul senso o sullo scopo della propria esistenza, o della creazione in generale, mi è sempre parso assurdo da un punto di vista obiettivo. Eppure tutti hanno certi ideali che determinano la direzione dei loro sforzi e dei loro giudizi. In questo senso non ho mai considerato l’agiatezza e la felicità come fini in se stessi, una tale base etica la ritengo più adatta a un branco di porci. Gli ideali che hanno illuminato il mio cammino, e che via via mi hanno dato coraggio per affrontare la vita con gioia, sono stati la verità, la bontà e la bellezza. Senza il senso di amicizia con uomini che la pensano come me, della preoccupazione per il dato obiettivo, l’eternamente irraggiungibile nel campo dell’arte e della ricerca scientifica, la vita mi sarebbe parsa vuota. Gli oggetti comuni degli sforzi umani ­ proprietà, successo pubblico, lusso ­ mi sono sempre sembrati spregevoli.

Albert Einstein
Estratto da “Il mondo come lo vedo io” Parte Prima
Riflessioni dal 1934 al 1955

Il valore del silenzio

Viviamo in una cultura della comunicazione e dell’informazione, che inneggia alla condivisione di ogni pensiero, impressione e sentimento, siamo spesso indotti o inclini a non fermarci a riflettere su quanto sentiamo o, peggio ancora, sulle stesse parole che stiamo per pronunciare o che abbiamo appena pronunciato.
Spesso ci viene persino proposto come modello positivo, in quanto indice di presunta immediatezza e sincerità, il fatto di esprimere in modo diretto, senza pensare ciò che ci passa per la mente.
Invero si tratta di una dote tutt’altro che positiva perché indica un’incapacità di riflettere, di ponderare, di parlare con cognizione di causa, una superficialità per nulla affatto da prendere a modello.
È una grave mancanza di riflessione che potrebbe spingerci a vivere in modo superficiale, a ragionare solo sull’esteriorità, sull’apparenza nostra e del mondo circostante e, quindi, a perdere il contatto con noi stessi ed il nostro Io più profondo ed atavico.
Al contrario, quando riusciamo a prestare attenzione al silenzio, alla conversazione che abbiamo internamente tra noi stessi, il nostro animo e la nostra mente, e impariamo a frequentare e abbracciare questi “spazi” e “tempi” di intimità, siamo in grado di collegarci con la nostra essenza.
Si tratta si di una connessione molto profonda che è la vera base di una vita autentica, di un impegno serio e sincero che prendiamo con noi stessi.
È una delle condizioni necessarie per autorealizzarci.
Dedicandoci al silenzio come l’intervallo tra le nostre interazioni verbali con gli altri, siamo in grado di cogliere il vero significato di ciò che emerge da tali scambi e di assimilarlo nella nostra psiche, il luogo intimo dal quale fluiscono naturalmente tutte le motivazioni più sincere e l’impegno creativo.
Ed è proprio l’impegno creativo con i nostri processi interni che ci permette di scoprire di più su chi siamo, di prendere coscienza dei vari aspetti di noi stessi che prima ci erano nascosti o oscuri, di maturare.
È ciò che ci dà modo di essere più autentici, più spontanei, più genuini, di avere una vita più piena, appagante, serena e, quindi, di sentirci maggiormente realizzati, di controllare e gestire in modo più attivo la nostra esistenza e il mondo che ci circonda.
La comunicazione verbale e il tacere sono entrambi di vitale importanza. Sono due parti di un tutto tra le quali oscilliamo costantemente.
La comunicazione verbale racconta ed esprime agli altri e al mondo quanto sta succedendo dentro di noi.
Ma il silenzio non è soltanto un intercalare tra due momenti di dialogo. Se lo valutiamo e lo rivalutiamo per ciò che davvero è, si rivela proprio un prezioso strumento per metabolizzare quanto abbiamo appena detto o sentito, per scoprirne il profondo senso, le implicazioni per noi e per gli altri.
Così, la nostra comunicazione diventa una sorta di forum per esplorare nuovi territori in noi stessi.
Le domande che ci possiamo porre nei momenti di silenzio riflessivo sono molte e ci danno modo di smetterla di essere estranei a noi stessi e di iniziare a scoprire chi davvero siamo.
Da un simile processo prendono le mosse la crescita personale, la possibilità di migliorarci, di capire a fondo noi stessi, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Quando scegliamo l’importanza del silenzio come occasione per ripiegarci su noi e riflettere, per sintonizzarci su chi siamo e che cosa vogliamo, per comprendere di più le sfumature di ciò che ci rende unici e irripetibili ci accostiamo anche a scoprire l’effettivo senso della nostra vita.
Non dobbiamo, dunque avere paura del silenzio, né quando siamo soli né quando siamo con gli altri.
Il silenzio è un modo per pensare, per metterci davanti al nostro io, alla realtà. Non stupisce, dunque, se la società di ieri ci ha abituati a una vita all’insegna dell’inquinamento acustico: è un modo per impedirci di riflettere, di riappropriarci dei nostri pensieri, delle nostre decisioni.
È chiaro anche perché i giovani non sopportino il silenzio in quanto è un modo per costringerli a guardarsi dentro e non accontentarsi dell’esteriorità, un imperativo che li obbliga a porsi delle domande e, dunque, a doversi impegnare per trovare le risposte.
Si spiega così anche perché con una persona con la quale non abbiamo molta confidenza il silenzio crea disagio, mentre, invece, con chi abbiamo una certa sintonia, esso è più loquace di mille discorsi, di mille parole.
Il silenzio, pertanto, è una forma di comunicazione superiore, capace di dire molto perché parla il linguaggio delle emozioni, dei pensieri, delle sensazioni che nessuna forma di comunicazione verbale saprebbe mai tradurre in modo tanto pieno, intenso e profondo… Quindi, più che mai…
Enjoy the silence.

Rev. Billy Talen

 

Le informazioni e la comunicazione

Le riflessioni riportate in questo articolo sono trasferibili anche ai contesti sociali nei quali viviamo costantemente: famiglia, lavoro, gruppi sportivi e di qualsiasi altro genere. Inconsciamente si dà per scontato che la lingua comune (italiano, nel nostro caso) sia sufficiente per comprendersi. Spesso non è così.

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Estratto da “ I quaderni dell’Università del volontariato “
Le organizzazioni di volontariato alla luce delle teorie sui gruppi  – Cap. 3.2. pag. 22   Allegato a: V dossier – Rivista periodica dei Centri di Servizio per il volontariato di Marche, Messina e Milano – dic. 2013 anno 4 – numero 2.

 

La comunicazione è qualsiasi operazione che ponga in relazione dei soggetti umani e che consista nel trasmettere una conoscenza, un’informazione, un’emozione; più precisamente è un rapporto interumano, un «contatto» avente come scopo quello di fare partecipi gli individui appartenenti a quel gruppo della conoscenza o presa di coscienza di qualche cosa, attraverso uno scambio di informazioni (1). È ovvio che fra i componenti di un gruppo ogni scambio di informazione implica anche scambio di significati, che dipendono dalle epistemologie di ciascun componente e del gruppo nel suo insieme. Vale la pena ricordare quanto afferma Bateson: «Vedete, io non penso che un’azione o una parola siano una definizione sufficiente di se stesse; credo invece che un’azione o la targhetta posta su un’esperienza debbano essere sempre viste, come si dice, in un contesto. E il contesto di ciascuna azione è formato dall’intera rete dell’epistemologia e dallo stato di tutti i sistemi implicati, con la storia che ha portato a questo stato. Ciò che noi crediamo di essere dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del mondo intorno a noi» (Bateson, Dove gli angeli esitano 1990, p.266).

Ogni persona vive una serie di esperienze e raccoglie, attraverso i suoi canali percettivi, una infinità di osservazioni; tra tutte queste ne seleziona alcune, che poi trasforma a partire da una serie di variabili sia personali sia di contesto. Queste vengono poi trasformate in descrizioni, cioè vengono tradotte in un «linguaggio» che le rende comprensibili anche ad altri, che a loro volta trasformano in idee proprie quelle determinate esperienze.

Risulta chiaro, da questa descrizione molto sommaria, come il passaggio di informazioni comporti continui aggiustamenti dei messaggi e continue trasformazioni; si pone allora una domanda fondamentale per il lavoro di una organizzazione: quali informazioni possono essere utili e come possono costituire un bagaglio comune per i componenti del gruppo di lavoro? Al di là del modello circolare in cui tutti hanno a disposizione tutte le informazioni, modello ideale e assolutamente impercorribile oltre che probabilmente dannoso, è possibile tentare una risposta attraverso il concetto di “unità informativa”. Le informazioni a disposizione di ogni componente vengono selezionate in base alla loro significatività in relazione agli obiettivi e ai contenuti del lavoro dell’associazione nel suo complesso e in quel momento particolare; è necessario un chiarimento continuo su questo livello metodologico, così da consentire a ciascuno di avere a disposizione un filtro il più possibile comune e condiviso. Questo procedimento non elimina comunque il problema dei filtri personali, nel modo di leggere e descrivere la realtà, ma consente uno scarto minore almeno rispetto alle variabili esplicitabili. Dopo questa operazione preliminare, le informazioni vengono messe in comune ed elaborate alla luce di quelle degli altri sino ad arrivare a costituire un bagaglio unico. Sempre Miller, tra le sue ipotesi, sostiene che: «Quanto maggiore è l’interazione tra due sistemi (o tra componenti di uno stesso sistema(2)), tanto più simile diviene la distribuzione dell’informazione comune» (Miller 1986, p.267). Si può quindi supporre che questo sia un processo auto rinforzantesi; aumentandolo scambio di informazioni aumenta la capacità interna del sistema di distribuire le stesse fra i membri, potenziando le modalità di flusso delle comunicazioni. Sono cioè unità informative tutte quelle informazioni, ad ogni livello, comuni e condivise che possono apportare un mutamento all’operatività. A questo punto ogni membro ha a disposizione ulteriori elementi per poter operare, ed in base a questi e alle esperienze successive acquisirà nuove informazioni che andranno a formare successivamente una nuova unità informativa, e così di seguito.

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(1) Il concetto di informazione non coincide con quello di significato. Significato è il valore che ogni informazione assume per il sistema che la elabora: esso comporta un cambiamento in quei processi del sistema attivati dall’informazione, che spesso risultano da associazioni stabilite nella precedente esperienza con quello stesso significato. Miller, definisce l’informazione come «il grado di libertà esistente, in una data situazione, di scegliere tra segnali, simboli, messaggi o configurazioni che debbono essere trasmessi» (Miller, James G. Teoria generale dei sistemi viventi. Milano: Franco Angeli, 1986.).

(2) Sistema = gruppo.

http://www.csvlombardia.it/wp-content/uploads/2019/02/Udv_La-gestione-dei-gruppi.pdf

 

 

Il canto

Estratto da “Pensieri quotidiani” anno 2014   di Omraam Michaël Aïvanov –  Ed. Prosveta

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Ciascuno dovrebbe impegnarsi a cantare, anche chi è stonato, poichè si tratta di un mezzo per fare un lavoro su se stessi.

Quando cantiamo, fisiologicamente, a partire dalla gola fino al diaframma, qualcosa di potente si mette in moto: la voce scaturisce e a poco a poco ci sentiamo liberare dalle tensioni e dalle pesantezze interiori.

Cosa si sa degli angeli? Vengono rappresentati come creature alate che cantano. Come gli uccelli: l’angelo e l’uccello sono associati all’idea della leggerezza, del volo, ma anche del canto. Non è forse per noi un invito a cantare per liberarci di tutti quel che ci appesantisce? quante turbe mentali gli esseri umani potrebbero guarire tramite il canto! […]

Il canto è un’espressione della vita; la vita stessa altro non è che un canto. E cosa c’è di più necessario e vivificante che riuscire a sbarazzarsi dell’atmostera pesante che ci circonda, per lanciarsi in quelle regioni dove tutto è armonioso, luminoso, leggero?

Collaborazione

di Ermanna

Il mondo del lavoro richiede, tra le varie competenze,  la capacità di collaborare. Paradossalmente, questo sembra essere proprio ciò che l’uomo di oggi trova più difficile da inquadrare. Sembra che non ci si riesca a capire.

Spesso siamo convinti di essere persone collaborative. Chi ci sta intorno potrebbe non condividere la nostra affermazione. Cosa ci frena dal mettere in atto una fattiva collaborazione?

Ciò che a volte impedisce il condividere pensieri e mettere a disposizione capacità, conoscenze e informazioni è la paura. Paura di essere derisi perché non si crede veramente nelle proprie idee o in se stessi; paura che ci vengano sottratti suggerimenti geniali per i quali altri potrebbero prendersi il merito; paura di esporsi; paura di essere sfruttati, di fare il lavoro degli altri; paura di assumersi troppi impegni; paura di perdere opportunità; paura di perdere l’autorità acquisita; paura che dando qualcosa di sé se ne possa rimanere privi.
Altre volte l’ostacolo è il desiderio di dimostrare di essere i migliori, di non lasciarsi schiacciare, di sentirsi leader, o perché si è convinti di sapere qual è la cosa migliore; e via di seguito.
Franklin D. Roosevelt ha affermato “Competere è molto utile, ma solo fino ad un certo punto. Collaborare, invece, è quella cosa che inizia quando finisce la rivalità“.

Questi atteggiamenti accadono perché si intende questo termine come “lavorare con gli altri”. Etimologicamente deriva da Cum- labor- agere, fare un lavoro insieme e, per estensione, agire in armonia con chi lavora insieme a noi. La collaborazione, quindi, si colloca a un livello superiore rispetto al lavoro insieme. Collaborando le persone mettono in comune competenze, conoscenze, talenti, informazioni e risorse. Collaborare è mettere a disposizione quanto si è e quanto si ha per arricchire e per arricchirsi.

Saper collaborare prevede una serie di capacità che ogni uomo possiede e a cui ha la possibilità di dare spazio e sviluppare. Prioritariamente capacità che si possono definire interiori quali formulare pensieri originali e esprimerli in modo chiaro e inequivocabile; ascoltare l’altrui pensiero, sia razionale sia emozionale; entrare in empatia con gli altri. Altre doti più specifiche e personali che sono differenti da persona a persona, quali la capacità di coordinare idee e persone e la capacità di pianificare un percorso condiviso. Ultima, ma non meno importante, la capacità di adattamento. Questo origina la spontaneità e l’affiatamento che permettono di trovare il giusto equilibrio nella relazione paritaria tra le persone. Si creano quindi le condizioni per arrivare più facilmente al raggiungimento dell’obiettivo.

In internet, le immagini legate alla parola collaborazione si presentano accattivanti, colorate, dinamiche e spiritose. Ma più significativa di altre è quella che deriva dalla storia dell’asino di Buridano [1].

In questa immagine viene racchiuso tutto il significato della parola. Agire insieme per il bene comune, disinteressatamente, sapendo che tutti gioveranno del beneficio ottenuto. Si può obiettare che un asino potrebbe mangiare più dell’altro all’inizio, ma sarà già in parte sazio quando affronterà il secondo mucchio d’erba, permettendo anche all’altro di sfamarsi. Questa è la capacità di adattamento che il secondo asino mette in atto.

Perché è fondamentale la collaborazione? Semplicemente perché la sinergia tra le persone produce un risultato migliore rispetto a quanto potrebbe fare una persona da sola.

La collaborazione è vista soprattutto in campo lavorativo, ma è fondamentale anche in tutti gli altri ambiti della vita: in famiglia, con gli amici, nei rapporti condominiali, nei momenti più impensati come andare a fare spese, dal parrucchiere o semplicemente fare una passeggiata nel bosco o in riva al mare in perfetta solitudine. Come possiamo collaborare durante una passeggiata nel bosco? Collaboriamo con la natura ascoltandone i suoni, sentendone gli odori e percependo la bellezza delle forme e dei colori. Entrando in sintonia con essa. Rispettandone il suolo e la vegetazione, permettendo a chi passerà dopo di noi di godere della stessa magnificenza.

Collaborare è entrare in sintonia con chi e con ciò che ci sta intorno. È rispettare l’altro e permettergli di esprimersi, senza giudizio, nella condivisione e nella critica costruttiva delle idee, non della persona.

[1] Giovanni Buridano, filosofo francese del XIV secolo (Jean Buridan), spiegò il suo pensiero con la metafora dell’asino che, posto di fronte una scelta difficile, un secchio di cibo e uno di acqua posti alla stessa distanza, non sapendo decidere se avesse più fame o più sete, non si mosse e morì di fame e di sete. L’indecisione paralizzante tra due scelte, tra due soluzioni a un problema viene definita “fare l’asino di Buridano”. Si presume che siano stati i detrattori del filosofo a introdurre questo modo di dire per dimostrare l’infondatezza delle sue teorie. Il filosofo era convinto, infatti, che la volontà agisce se l’intelletto ha trovato una soluzione, mentre di fronte a una scelta tra due opzioni ritenute equivalenti dall’intelletto, la volontà si blocca. http://www.sapere.it/sapere/strumenti/domande-risposte/di-tutto-un-po/perche-si-dice-fare-asino-buridano.html ”Sapere.it”