Cos’è una teoria?

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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Parte prima

Che cos’è una teoria? Il termine deriva dal greco antico e vuol dire «visione», ha la stessa radice di teatro e lo stesso significato di idea, che a sua volta letteralmente significa «visione». In particolare teoria significa «visione d’insieme»: vedo un dato, per esempio un essere umano; poi ne vedo un altro, per esempio un cranio di centomila anni fa; poi un altro ancora, per esempio lo scheletro di un ominide di un milione di anni fa; li collego cercando una spiegazione unitaria e ottengo una teoria, in questo caso la teoria dell’evoluzione. Dove nasce la teoria? Non nel laboratorio, ma nella mente. Ebbene, qual è la teoria nata nella mia mente che intendo presentare in queste pagine sottoponendola alla verifica sperimentale?

La mia teoria
Espongo la mia teoria in un mondo come quello meglio della rabbia, la correttezza meglio della corruzione. Sembrano ovvietà e forse in teoria lo sono, però nella pratica quotidiana, dove spesso imperversano malvagità, disonestà, menzogna, rabbia, corruzione, non lo sono per nulla. Ma in che senso dico «meglio»? In base a un criterio fisico: la vita. Più precisamente, il mio criterio è la vita umana nella completezza delle sue dimensioni che riguardano il corpo, la psiche e lo spirito, intendendo con spirito la facoltà che ci permette talora di essere liberi (cioè consapevoli, creativi, responsabili). La virtù è quanto ci consente di praticare l’igiene della nostra interiorità e così di mantenerla in salute, evitando che l’accumulo della sporcizia produca infezioni interiori paragonabili alle carie che perforano lo smalto dei denti, o peggio alle cellule impazzite dei tumori. La virtù è il più efficace sistema immunitario contro i numerosi agenti patogeni che minacciano la salute della nostra interiorità. È quella preziosa energia interiore difficilmente denominabile ma che fa della nostra vita un’esistenza umana, uno stare al mondo umanamente degno. La mia profonda convinzione è che, per far fiorire la nostra vita a tutti i suoi livelli, la strada più efficace sia la virtù, da intendersi secondo le molteplici declinazioni su cui mi soffermerò in queste pagine. È fondata questa teoria? È sensato parlare di un’etica per vivere bene? Di un’etica per non ammalarsi o per guarire? Esiste veramente un potere igienico e terapeutico della virtù? E se sì, come si esercita in concreto? Rispondere a queste domande costituisce l’esperimento che intendo condurre.

Un nugolo di domande
Sono consapevole delle perplessità che la mia teoria può suscitare a causa del fatto che il concetto di virtù, e più ancora quello di bene, sono ai nostri giorni oggetto di innumerevoli controversie. A dire il vero già molti secoli fa Platone notava che sul bene le idee erano alquanto confuse: «Nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà». Noi oggi però non solo vediamo a stento l’Idea del Bene, ma corriamo il rischio di non vederla per nulla. Per questo ognuno di noi, appena sente parlare di bene e di virtù, non può evitare il sorgere di una serie di domande che lo trasportano in uno scivoloso labirinto concettuale. Le prime riguardano il bene e la virtù dal punto di vista oggettivo:
Esiste il bene in sé? E se sì, cos’è? Oppure dicendo bene ci si riferisce a una dimensione inevitabilmente soggettiva e come tale relativa? E che cos’è, di contro, il male? Esiste il male in sé? Oppure il cosiddetto male dipende ogni volta dalla condizione del soggetto e dalle circostanze, così da risultare anch’esso inevitabilmente relativo? Si può, in altri termini, parlare di «bene assoluto» e di «male assoluto», o tali espressioni sono solo esagerazioni retoriche?
Esiste un bene che sia tale veramente per tutti e che la tradizione chiama «bene comune»? Oppure il bene di alcuni è sempre necessariamente il male di altri, come avviene in natura dove il leone raggiunge il suo bene e quello dei suoi piccoli divorando la gazzella e i suoi piccoli? Come stanno le cose tra gli esseri umani? Anche nel mondo umano il bene di alcuni è necessariamente il male di altri, oppure è possibile almeno in parte superare la legge mors tua vita mea e instaurare uno stato di cooperazione sociale? *
Perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male? Il male talora non può a sua volta produrre bene? E il bene, troppo bene, non finisce a volte per produrre del male?
Che rapporto c’è tra bene e male, e quindi tra virtù e vizi? Si tratta di un rapporto dualistico, che per il darsi del bene e della virtù esclude la presenza del male e del vizio? Oppure si tratta di un rapporto complementare, che per ildarsi del bene e della virtù include la presenza del male e del vizio?

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?

Atomizzazione della società

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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segue da PARTE PRIMA

La scomparsa dei simboli rimanda alla crescente atomizzazione della socità. Al contempo, la società diventa sempre più narcisistica. Il processo di interiorizzazione narcisistica sviluppa un’ostilità nei confronti della forma: le forme oggettive vengono scartate a vantaggio di circostanze soggettive. I riti si sottraggono all’interiorità narcisistica e la libido dell’Io non vi si può agganciare dal momento che, se si concede loro, deve prescindere da se stessa. I riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi depsicologizzano, deinterioirzzano chi li inscena.

Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da un’informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere a una conclusione. Oggi le serie sono così amate probabilmente perchè corrispondono all’abitudine della percezione seriale che, sul piano del consumo mediale, conduce al binge watching, al guardare fino a cadere in coma.  Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni.

[…] Il costante update, che è arrivato a riguardare tutti gli ambiti della vita, non consente alcuna durata, alcuna conclusione. La coazione permanente a produrre conduce a un disaccasamento  (Enthausung), che rende la vita più contingente, effimera e incostante, mentre l’abitare necessita di durata.

Il disturbo da deficit di attenzione scaturisce da un incremento patologico della percezione seriale. La percezione non conosce quiete, disimpara a indugiare. La profonda attenzione, in quanto tecnica culturale, si costruisce proprio a partire dalle pratiche rituali e religiose. Non è un caso che la parola religione derivi da relegere, prendere nota. Ogni pratica religiosa è un esercizio d’attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. Secondo Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega – produce se stessa senza sosta.

Oggigiorno molte forme di ripetizione come l’imparare a memoria vengono tacciate di opprimere la creatività, l’innovazione ecc. Imparare a memoria in francese si dice apprendre par coeur. È evidente che le ripetizioni, da sole, arrivano al cuore. Alla luce del crescente disturbo da deficit di attenzione, non molto tempo fa è stata proposta l’introduzione di una nuova materia scolastica, “Studi rituali”, per praticare nuovamente la ripetitività dei riti in forma di tecnica culturale. Le ripetizioni stabilizzano e acuiscono l’attenzione.

La ripetizione è un tratto essenziale dei riti. Si differenzia dalla routine in quanto capace di generare una particolare intensità. Da dove viene l’intensità che contraddistingue la ripetizione e fa sì che essa non diventi routine?  La ripetizione e il ricordo rappresentano per Kierkegaard il medesimo movimento, ma in opposte direzioni. Ciò che ci si ricorda è passato ed è “ripetuto all’indietro”, mentre la ripetizione autentica “ricorda il suo oggetto in avanti”.  La ripetizione come riconoscimento è quindi una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. In quanto tale, essa stimola la durata e l’intensità, fa sì che il tempo indugi.

Kierkegaard contrappone la ripetizione sia alla speranza, sia al ricordo: La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perchè non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso.

Secondo Kiekegaard “è solo il nuovo ad annoiare”, il vecchio “è pane quotidiano che nutre in abbondanza”. Rende felici: “Felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità”.

Il pane quotidiano non stimola, gli stimoli sbiadiscono in fretta. La ripetizione scopre l’intensità in ciò che è privo di stimoli, nel non appariscente, nell’insipido. Chi invece si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì. Il senso, quindi la via, è reperibile. Non ci si stanca mai della via:

Io posso ripete solo ciò che è del tutto privo di eventi, sebbene qualcosa mi abbia reso felice con la coda dell’occhio (la luce del giorno, o l’imbrunire), già un tramonto è un evento e come tale non ripetibile; non posso neppure ripetere una luce particolare, o un imbrunire, bensì solo una via (e peraltro devo essere pronto a tutte le pietre, anche quelle nuove.  P. Handke.

A caccia di nuovi stimoli, eccitazioni ed esperienze oggi perdiamo la capacità di ripetere. […]  Il vecchio, ciò che è stato, che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento.

Il nuovo si appiattisce rapidamente diventando routine, è una merce che si consuma e riaccende il bisogno di nuovo. La coazione a dover respingere tutto ciò che è routine produce altra routine. Nel nuovo è quindi insita una stuttura temporale che sbiadisce presto in routine, senza consentire alcuna ripetizione appagante.  La coazione a produrre in quanto coazione verso il nuovo non fa perciò che incrementare il pantano della routine. Per sfuggirle, per sfuggire al vuoto, ecco che consumiamo ancora più cose nuove, nuovi stimoli ed esperienze. È proprio il senso di vuoto a trainare la comunicazione e il consumo. Il “vivere intenso” come da pubblicità […] non è altro che un consumo intenso. Dinanzi all’illusione del “vivere intenso” bisogna riflettere su un’altra modalità di vita, più intensa dell’incessante consumare e comunicare.

I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune […]. Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. […] La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.

I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei. Gli ordini e i valori in vigore in una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati. Vengono inscritti nel corpo, incorporati, cioè interiorizzati mediante il corpo. Così i riti creano una conoscenza e una memoria incarnate, un’identità incarnata, un legame incarnato. […] La digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poichè da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è  una comunicazione decorporeizzata.

Nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti, ma il loro soggetto non è l’individuo per sé, isolato. Nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale. I sentimenti collettivi non hanno nulla a che vedere con la psicologia individuale. Nel rito funebre, è la comunità il vero soggetto del lutto: dinanzi all’esperienza della perdita, è essa che se lo impone, e questi sentimenti collettivi la consolidano. La crescente atomizzazione della socità riguarda anche ilsuo equilibrio emotivo. I sentimenti comunitari si formano sempre più di rado. In compenso, impulsi e ardori passeggeri, caratteristici di un individuo isolato, imperversano. Al contrario degli ardori e degli istinti, i sentimenti possono essere comunitari. La comunicazione digitale è un gran parte guidata dagli impulsi, ne favorisce l’immediato sgombero. Twitter si rileva un medium degli impulsi, e la politica che si basa su di esso è una politica impulsiva: la politia è ragione e mediazione, ma la ragione, che possiede una grande intensità temporale, oggi cede sempre più il passo a impulsi momentanei.

[…] Oggi la comunicazione digitale si orienta sempre più verso una comunicazione senza comunità. […]  La comunicazione senza comunità può essere accelerata, in quanto è additiva. I riti sono invece processi narrativi che non consentono alcuna accelerazione.  I simboli stanno fermi. Le informazioni no: esse esistono se circolano. Il silenzio significa solo arresto della comunicazione, non produce nulla. […] Più informazioni, più comuncazione promettono più produzione, così la coazione a produrre si esprime come coazione a comunicare. […]

La depressione non si verifica in una socità caratterizzata dai riti, nellaquale l’anima viene completamente assorbita, e addirittura svuotata, dalle forme rituali. I riti riassumono il mondo, producono un forte rapporto col mondo, mentre alla base della depressione c’è una smodata autoreferenzialità. Del tutto incapaci di uscire da se stessi e di superarsi proiettandosi nel mondo, ci si incapsula. Il mondo scompare. Si ruota su se stessi con un tormentoso senso di vuoto. I riti invece alleviano l’Io dal fardello del sé, lo depsicologizzzano e deinteriorizzano.

 

 

Riti, simboli e coazione a produrre

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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Parte prima

I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis). L’ospite spezza a metà una tavoletta d’argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. Questa è una forma particolare di ripetizione:

Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’“accasamento” umano – una parola di Hegel, che voglio usare in questo caso – il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. Noi tutti lo sappiamo assai bene. Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole (H.G. Gadamer, L’attualità del bello – Marietti ed. 1988).

La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente. I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano. Nel romanzo La cittadella, Antoine de Saint-Exupéry descrive i riti proprio come tecniche temporali dell’accasamento:

E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione.

Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensì un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile. I riti stabilizzano la vita. Parafrasando Antoine de Saint-Exupéry, potremmo dire che i riti sono nella vita ciò che le cose sono nello spazio.

Per Hannah Arendt è la resistenza delle cose a offrire loro un’“indipendenza dagli uomini” (Vita activa. La condizione umana – Ed Bompiani Milano 2017). Le cose hanno “la funzione di stabilizzare la vita umana”. La loro oggettività sta nel fatto che “gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé”, cioè la loro identità, “riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”. Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza, della loro ripetizione. Rendono, dunque, la vita resistente. L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di più, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile. E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. Lo smartphone non è una cosa che piacerebbe a Hannah Arendt, gli manca proprio quella medesimezza in grado di stabilizzare la vita e non è neanche particolarmente resistente. Si differenzia da cose come un tavolo, che mi affrontano col loro sé. I suoi contenuti mediali che richiamano di continuo la nostra attenzione sono l’esatto contrario del sé. Il suo cambiare rapidamente non consente alcun indugio. L’inquietudine propria di questo tipo di apparecchio lo rende una non-cosa. Inoltre, il suo utilizzo diventa costrittivo, invece da una cosa non dovrebbe scaturire alcuna costrizione. Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose. Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensì usate
– così possono anche invecchiare. In preda alla coazione a produrre ci rapportiamo alle cose e al mondo non come utilizzatori, bensì come consumatori. Di ritorno, le cose e il mondo consumano noi. Il consumo senza scrupoli ci attornia insieme alla sparizione, che destabilizza la vita. Le pratiche rituali fanno sì che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose.

Oggi non consumiamo solo le cose, bensì anche le emozioni di cui si fanno portatrici. Le cose non si possono consumare senza fine, le emozioni sì. Così esse aprono un nuovo, infinito campo di consumo. L’emotivizzazione della merce e l’estetizzazione che l’accompagna sono sottoposte alla coazione a produrre; devono aumentare il consumo e la produzione. Così facendo, l’estetico si fa colonizzare dall’economico. Le emozioni sono più fuggevoli delle cose, per cui non stabilizzano la vita. Inoltre, nel consumare un’emozione non ci si rapporta alle cose, ma solo a se stessi. Si cerca un’autenticità emotiva. In tal modo il consumo dell’emozione rafforza l’autoreferenzialità narcisistica. Il rapporto con il mondo, che le cose dovrebbero garantire, si perde sempre più. Anche i valori fungono oggi da oggetto del consumo individuale, diventano a loro volta merce. Valori come la giustizia, l’umanità o la sostenibilità vengono sfruttati economicamente. “Cambiare il mondo bevendo tè”: ecco lo slogan di un’impresa di commercio equosolidale. Cambiare il mondo mediante il consumo – ovvero: la fine della rivoluzione. Di vegan esistono anche scarpe e vestiti, e chissà, forse arriveranno persino gli smartphone. Il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti. I valori morali vengono consumati quali tratto distintivo. Vengono registrati sull’ego-account, il che accresce l’autostima. Essi fanno aumentare un narcisistico rispetto di sé. Tramite i valori non si fa riferimento alla comunità, bensì al proprio ego. Con il simbolo, con la tessera hospitalis, gli ospiti sigillano il loro legame. La parola symbolon è inserita nel medesimo orizzonte di significato della relazione, della totalità e della salvezza. Secondo il mito che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, originariamente l’uomo era una creatura sferica con due volti e quattro gambe. Visto che era troppo esuberante, Zeus lo tagliò in due per indebolirlo.

Da allora l’uomo è un symbolon che si strugge per l’altra metà, per una totalità salvifica. Così, in greco “mettere insieme” si dice symballein. I riti sono, in questa accezione, anche una pratica simbolica, una pratica del symballein, in quanto riuniscono le persone e creano un legame, una totalità, una comunità. Oggi il simbolico inteso come medium della comunità scompare a vista d’occhio. La desimbolizzazione e la deritualizzazione si presuppongono a vicenda. L’antropologa sociale Mary Douglas constata con stupore:

Uno dei problemi piú gravi dei nostri giorni è la sfiducia nei simboli. […] se si trattasse soltanto della nostra frammentazione in piccoli gruppi, ciascuno legato alle sue forme simboliche, la situazione sarebbe facile da capire. Ma esiste un fenomeno ben piú misterioso: un ampio ed esplicito rifiuto dei rituali in quanto tali. “Rituale” è diventato una brutta parola, equivalente a conformismo vuoto: assistiamo a una rivolta contro il formalismo, anzi, contro la forma. 

Parte seconda

 

Idee che pensiamo, idee che ci possiedono

Estratto da ” I miti del nostro tempo” di Umberto Galimberti – Ed. Feltrinelli

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Introduzione

Conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie dell’anima, quasi per nulla le malattie della mente. Eppure, anche le idee della mente si ammalano, talvota si irrigidiscono, talvolta si assopiscono, talvolta, come le stelle, si spengono. E siccome la nostra vita è regolata dalle nostre idee, di loro dobbiamo aver cura, non tanto per accrescere il nostro sapere, quanto piuttosto per metterlo in ordine.

La prima figura d’ordine è la problematizzazione di certe idee che per ragioni biografiche, culturali, sentimentali o di propaganda, sono così radicate nella nostra mente da agire in noi come dettati ipnotici che non sopportano alcuna critica, alcuna obiezione. E non perchè siamo rigidi o dogmatici, ma perchè non le abbiamo mai messe in discussione, non le abbiamo mai guardate da vicino. Chiamiamo queste idee miti, mai attraversati dal vento della de-mitizzazione.

A differenza delle idee che pensiamo, i miti sono idee che ci possiedono, e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fatica a far giungere il ruo raggio. E questo perchè i miti sono idee semplici che noi abbiamo mitizzato perchè sono comode, non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola ci rassicurano, tolgiendo ogni dubbio alla nsotra visione del mondo che, non più sollecitata dall’inquietudine delle domande, tranquillizza le nostre coscienze beate che, rimunciando al rischio dell’interrogazione, confondono la sincertià dell’adesione con la profondità del sonno.

Ma occorre risvegliarci dalla quiete che le nostre idee mitizzate ci assicurano, perchè molte sofferenze, molti disturbi, molti malessei nascono non dalle emozioni di cui si fa carico la psicoterapia, ma dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono di comprendere il mondo in cui viviamo, e soprattutto i suoi rapidi cambiamenti, di cui i media quotidianamente ci informano senza darci un discernimento critico che ci consenta di intravedere quali idee nuove dobbiamo escogitare per capirlo. E tutti sappiamo che essere al mondo senza capire in che mondo siamo, perchè disponiamo solo di idee elementari a cui restimao arroccati per non smarrirci, è la via regia per estraniarci dal mondo, o per essere al mondo solo come spettatori straniti, quando non distratti, o disinteressati, o addirittura incupiti.

Per recuperare la nostra presenza al mondo, una presenza attiva e partecipe, dobbiamo rivisitare i nostri miti, sia quelli individuali sia quelli collettivi, dobbiamo sottoporli a critica, perchè i nostri problemi sono dentro la nostra vita, e la nostra vita vuole che si curino le idee con cui la interpretiamo, e non solo le ferite infantili ereditate dal passato che ancora ci trasciniamo.

Critica è una parola che rimanda al greco Krìno, che vuol dire “giudico”, “valuto”, “interpreto”. Ogni giudizio, ogni valutazione comportano una crisi delle idee che finora hanno regolato la nostra vita, e che forse non sono più idonee ad accompagnarci nella comprensione di un mondo che si trasforma anche senza la nostra collaborazione. Chi non ha il coraggio di aprirsi alla crisi, rinunciando a quelle idee-mito che finora hanno diretto la sua vita, non guadagna in tranquillità, ma si espone a quell’inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta.

Ma forse l’orientamento vuole proprio una de-mitizzazione dei miti un tempo funzionali e oggi dis-funzionali alla comprensione del mondo, vuole un radicale superamento dell’inerzia della mente, della sua passività, per un pensiero avventuroso che sappia liberarsi delle idee stantie, per incontrare le idee nuove, da non bruciare sul nascere, ma con le quali intrattenersi, perchè le idee sono fragili come cristalli, ma talvolta cariche di una forza capace di distruggere le nostre abitudini mentali.

Non sempre sono “idee chiare e distinte” come voleva Cartesio, spesso sono solo abbozzi di interpretazioni, che però consentono alla mente di allargare i suoi orizzonti, e a noi di diventare più tolleranti, perchè più aperti e più capaci di comprendere, quindi divivere.

Milano, 6 settembre 2009

 

 

 

Ispirazione

parte prima – “Se” Rudyard Kipling

Parte seconda

estratto da “La saggezza dei tempi” di Wayne W.Dyer – Ed. Bur RCS

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Se – Rudyard Kipling      Rivisitazione di W. W. Dyer

Se riuscirai a veder distrutta l’opera della tua vita
e senza dire una parola ricominciare ancora
o perdere per un solo colpo la tua ultima partita
e non avere un gesto o un sospiro per la tua angoscia;
se poi riuscirai ad amare senza farti accecare dalla passione,
ad essere forte senza perdere la tenerezza
e sentendoti odiato, a non nutrire avversione,
continuando a lottare per raggiungere la sicurezza;

Se riuscirai a sopportare di sapere che le tue parole
sono state travisate dai malvagi per aizzare gli stolti,
e se riuscirai a sopportare che la gente menta su di te,
mantenendoti sempre sincero, su te stesso, di fronte ai molti,
e se riuscirai a rimanere altero, pur nella popolarità,
e modesto anche quanto sarai consigliere del Re,
e se amerai tutti come fratelli,
senza concedere a nessuno un affetto esclusivo;

Se saprai meditare, osservare e conoscere
senza mai essere scettico o distruttore,
se saprai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni,
e pensare senza esaurire nel pensiero tutte le tue forze,
se riuscirai a essere determinato, ma mai collerico,
e coraggioso, ma mai imprudente,
e saggio, ma senza essere moralista e miope;

E se saprai affrontare il Trionfo e la Disfatta,
e accogliere entrambi questi mentitori con lo stesso animo,
e se riuscirai a mantenere il coraggio e la ragione
quanto tutti avranno perso la loro,
allora i Re, gli Dei, la Fortuna e la Vittoria, chineranno la testa davanti a te.
E, cosa che vale anche più dei Re e della Gloria,
sarai un Uomo, o figlio.

[…] ho scoperto una verità in molti dei consigli che Kipling offre a suo figlio in questa poesia, ma francamente sto ancora lavorando per applicare questo tipo di consigli alla mia vita quotidiana.
[…] Ci sono molti messaggi in questi trenta versi. Permettetemi di dirvi che cosa ispira in me questo consiglio poetico.
Mi ispira di essere abbastanza autonomo nello stabilire le mie decisioni per mantenere il mio equilibrio e la mia integrità, senza lasciarmi trascinare dalla follia che vedo intorno a me, e senza prestare ascolto a quel che gli altri possono pensare. “Sii te stesso”, è il consiglio […] E se io sarò in grado di essere me stesso, senza perciò giudicare gli altri intorno a me, mi sentirò rincuorato. […]
Mi ispira l’idea di utilizzare l’ipocrisia che trovo intorno a me per ricordare a me stesso che odio l’ipocrisia. Quando ero più giovane, ho utilizzato spesso l’ipocrisia degli altri come punto di partenza per la mia. Se le persone mentivano, mi capitava di decidere di riservare loro lo stesso trattamento, per quanto ciò fosse disgustoso nei confronti di me stesso. Ma mi fa sentire molto meglio il fatto che oggi non sopporto la menzogna a tal punto da non accettare di essere io stesso un mentitore.
Mi ispira il fatto di essere un buon perdente nella vita. Non sono sempre stato così, e anche oggi non sono sempre così, ma certo sono migliorato molto. Sì, mi piace l’azione e la competizione come sempre, ma ora posso ritirarmi in pace alla fine dei giochi, e so in cuor mio che il vero me non si interessa dei risultati della gara. Il fatto di partecipare significa che posso vincere e posso perdere, e che i risultati sono degli impostori che si sostituiscono al mio vero sé. Vorrei che i miei figli sapessero che non coincidono con le loro vittorie così come non si identificano con le loro sconfitte. […]
Mi sento ispirato quando riesco a evitare i giudizi basati sull’apparenza, sui risultati raggiunti, su quel che si ha acquistato, e mi limito guardare nelle persone il risvegliarsi di Dio. La tentazione di classificare la gente secondo quelle categorie, è a volte irrefrenabile […].
Mi sento ispirato quando vedo me stesso vivere per il mio cuore senza aver bisogno di provare a me stesso di avere un valore. […] Mi sento ispirato quando mi accorgo che non sono più così ostinato nel voler convincere gli altri che ho ragione, anche se so che quel che sto dicendo è vero.
[…] Tutte queste qualità che Rudyard Kipling ritrae brillantemente nella sua poesia “Se”, conducono a quello che, secondo me, significa veramente la sua conclusione. Se sarai in grado di fare tutte queste cose, ti sentirai ispirato, e allora “Sarà tua la terra e tutto quel che contiene e, cosa ancora più importante, sarai un uomo, figlio mio!
In questo modo Kipling dice a suo figlio che la maturità consiste nell’essere se stessi senza attendere il giudizio degli altri, Quando una persona è cresciuta in questo modo, potrà avere tutto ciò che riuscirà a desiderare.
Per mettere in pratica le parole di questa classica poesia nella vostra vita, oggi ho soltanto un suggerimento da darvi:
* Copiate questa poesia e leggetela a voi stessi e a coloro che volete aiutare ad acquisire una maturità emotiva e spirituale. Tutte le lezioni di questo mondo sono contenute in quei versi. Ovvero: tieni la testa a posto, confida in te stesso, sii onesto, sii un sognatore, non attaccarti alle cose, accetta il rischio, sii indipendente, sii umile, sii pietoso, impara a perdonare. C’è davvero tutto questo in questa poesia ormai classica. L’unica domanda che resta, ora, comincia con questo titolo di una sola parola: Se…