Noi siamo parte della terra …

Estratto da Lettera del Grande Capo Seattle, della tribù di Suwamish, a Franklin Pierce, Presidente della Confederazione degli Stati Uniti d’America (1855)

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Come potete comprare o vendere il cielo o il calore della terra? Questa idea ci meraviglia. Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria, né dello scintillio dell’acqua; come potreste comprarle da noi? Dovete sapere che ogni più piccola parte di questa terra, per il mio popolo, è sacra. Ogni foglia che riluce, ogni spiaggia sabbiosa, ogni nebbiolina del bosco oscuro, ogni limpidezza del cielo ed ogni insetto, col suo ronzio, sono sacri nella memoria e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che scorre negli alberi porta le memorie dell’uomo di pelle rossa.
I morti dell’uomo bianco, quando camminano tra le stelle, si dimenticano della loro terra natale. I nostri morti mai dimenticano questa bella terra, perché essa è la madre dell’uomo di pelle rossa. Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo,  il cavallo,  l’aquila maestosa,  sono  nostri  fratelli.  Le montagne rocciose,  le acque delle praterie,  il calore del corpo del puledrino  e  quello dell’uomo, appartengono tutti alla stessa famiglia. Per questo, quando il Grande Capo di Washington manda a dire che desidera comprare le nostre terre, chiede più di quanto sia possibile. Il Gran Capo manda a dire che ci riserverà un posto dove tutti noi potremo vivere comodamente. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli. Questo prenderemo in considerazione quando considereremo la sua offerta di comprare le nostre terre. Ma questo non sarà facile, perché queste terre sono sacre per noi.

L’acqua scintillante che scorre nei fiumi, nelle paludi e nei ruscelli, non è solamente acqua, ma è anche il sangue dei nostri antenati. Se vi concederemo di stare in queste terre, dovrete ricordarvi che esse sono sacre, e dovrete insegnare ai vostri figli che lo sono, e ogni riflesso fantasmagorico nelle acque limpide dei laghi, parla di fatti e ricordi della vita del mio popolo. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, essi calmano la nostra sete. I fiumi portano le nostre canoe e alimentano i nostri figli. Se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete ricordare ed insegnare ai vostri figli che i fiumi sono nostri fratelli, ed anche fratelli vostri. In avvenire dovrete avere verso i fiumi il comportamento affettuoso che avreste con un qualsiasi vostro fratello.

Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro modo di essere. Un pezzo di terra o un altro, per lui sono la stessa cosa, poiché egli è un “estraneo che arriva di notte” a prendere la terra di cui ha bisogno. La terra non è sua madre, ma è la sua nemica. Dopo averla conquistata, l’abbandona e continua il suo cammino. Lascia dietro di sé le tombe dei suoi padri, e non gliene importa. Priva i suoi figli della terra, e non se ne cura.
Dimentica la tomba di suo padre e i diritti dei suoi figli. Tratta la sua madre terra ed il suo fratello cielo come se fossero cose che si possono comprare, saccheggiare e vendere, come fossero agnelli o oggetti di vetro. Il suo insaziabile appetito divorerà la terra e lascerà dietro di sé solo un deserto. Io non comprendo il vostro modo di vivere. Il nostro modo di vivere è diverso dal vostro. Vedere le vostre città causa dolore agli occhi dell’uomo di pelle rossa. Ma forse è così perché l’uomo di pelle rossa è un selvaggio e non comprende le cose.

Non c‘è nessun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco, nessun posto dove si possa ascoltare lo stormire delle foglie in primavera o il ronzio di un insetto. Ma forse è così perché sono un selvaggio e non posso comprendere le cose. Il rumore della città è un insulto all’udito. E che genere di vita è quella di un uomo che non è capace di ascoltare il grido solitario di un airone o il canto notturno delle rane nello stagno? Sono un uomo di pelle rossa e non lo comprendo. Noi indiani preferiamo il soave suono del vento che accarezza il lago e l’odore del vento purificato dalla pioggia del mezzogiorno o profumato dalla fragranza dei pini. L’aria è qualcosa di prezioso per l’uomo di pelle rossa, perché tutte le cose partecipano dello stesso respiro: l’animale, l’albero, e l’uomo. L’uomo bianco sembra non apprezzare l’aria che respira. Come un uomo per molti giorni agonizzante, è diventato ormai insensibile al fetore. Ma, se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete ricordare che l’aria è preziosa per noi, che l’aria partecipa con il suo spirito a tutta la vita che alimenta. E se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete lasciarle intatte e mantenerle sacre, come un luogo nel quale potrà arrivare anche l’uomo bianco a compiacersi di respirare il vento profumato dai fiori della prateria. Prenderemo in considerazione la vostra offerta di comprare le nostre terre. Se decideremo di poterla valutare, sarà solo alla condizione che l’uomo bianco consideri gli animali di questa terra come fratelli. Sono un selvaggio, e non comprendo un altro modo di vivere. Ho visto migliaia di bufali in putrefazione nelle praterie, abbandonati dall’uomo bianco che aveva sparato loro da un treno in corsa.. Sono un selvaggio, e non comprendo come il fumante cavallo a vapore possa essere più importante del bufalo che noi uccidiamo solo per poter vivere. Cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali fossero spariti, l’uomo sarebbe morto, in una grande solitudine del suo spirito. Perché tutto quello che serve agli animali serve anche all’uomo. Tutte le cose sono in relazione fra di loro.

Voi dovete insegnare ai vostri figli che il suolo che è sotto i loro piedi è la cenere dei loro nonni. Affinché rispettino la terra, dovete dire ai vostri figli che la terra è piena della vita dei nostri antenati. Dovete insegnare ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: che la terra è nostra madre. Tutto quello che riguarda la terra riguarda anche i figli della terra. Quando gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi lo sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, ma l’uomo appartiene alla terra. L’uomo non ha tessuto la rete della vita. E’ solo una agugliata di filo di questa rete. Tutto quello che fa alla rete, lo fa a se stesso. Quello che serve alla terra, servirà ai figli della terra. Questo noi lo sappiamo: tutte le cose sono in relazione, come il sangue che unisce una famiglia.

Anche l’uomo bianco, il cui Dio passeggia con lui e parla con lui da amico ad amico, non può esentarsi dal destino comune. Forse siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo. Noi sappiamo qualcosa che l’uomo bianco un giorno scoprirà: che il nostro è il suo stesso Dio. Ora forse pensate di poter comprare le nostre terre e di diventarne padroni, ma non potete esserlo. Il vostro e il nostro Dio è lo stesso, perché è il Dio dell’umanità. La Sua compassione è la stessa, sia verso l’uomo di pelle rossa che verso l’uomo di pelle bianca. Questa terra è preziosa per Lui e danneggiarla significa mostrare disprezzo verso il suo Creatore. Anche voi uomini bianchi passerete e, qualche volta, finirete il vostro corso prima delle altre tribù. Se contaminerete il vostro letto, una notte morirete soffocati dai vostri stessi rifiuti. Eppure voi, anche nella vostra ultima ora, sarete convinti del fatto che Dio vi portò sulla terra e vi diede il dominio su di essa e sull’uomo di pelle rossa, con qualche progetto speciale. Questo disegno è un mistero per noi, perché non comprendiamo quello che succederà quando i bufali saranno sterminati, tutti i cavalli selvaggi saranno stati domati, quando i più reconditi angoli dei boschi non effonderanno più il loro profumo e quando la vista verso le verdi colline sarà impedita da una fitta rete di fili metallici parlanti. Dov’è il fitto bosco? Scomparve. Dov’è l’aquila? Scomparve. Così finisce la vita, e inizia la sopravvivenza.

 

Testo integrale:  http://www.labibliotecadibabele.net/attachments/article/144/seattle.pdf

 

Diventare ciò che si è

Estratto da “ La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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“Diventare ciò che si è”: il verbo diventare rimanda a un processo e indica due cose. La prima è che ognuno di noi, così come vive immediatamente, non è ciò che è veramente; che cioè tra la nostra vita di fatto e la nostra esistenza autentica non si dà coincidenza immediata, e che quindi essere se stessi richiede un lavoro, nonché la forza di poterlo svolgere. Nasciamo dipendenti in tutto e per tutto e trascorriamo buona parte della vita da gregari, ovvero, come dice la radice dell’aggettivo, completamente inseriti all’interno di un gregge che ci determina nella direzione, nella velocità, nello stile e quindi necessariamente nell’identità. Il lavoro dell’etica nella sua fase iniziale consiste quindi anzitutto nel distaccarsi dal gregge, nel cominciare a camminare in solitaria e diventare in questo modo egregi, letteralmente “fuori dal gregge” (ex-grege). Per diventare se stessi si deve anzitutto decidere di non essere più come ci vogliono gli altri, siano essi i genitori, gli amici, il partner, i figli, il movimento, la religione, la moda, la società dei consumi e chissà che altro.
La seconda conseguenza implicita nel verbo diventare è l’indicazione che si tratta di un lavoro realizzabile: è cioè davvero possibile diventare ciò che si è. Diversamente da chi afferma, magari con un’alzata di spalle: “Guarda, non ci posso fare niente, io sono fatto così”, l’insegnamento delle grandi tradizioni spirituali è unanime nell’affermare il contrario: ognuno più cambiare la sua condizione di partenza e diventare migliore realizzando autenticamente se stesso. I frutti del lavoro interiore sono del resto facilmente riconoscibili, basta aprire gli occhi per vedere che vi sono esseri umani che, a prescindere dal successo ottenuto, in quanto umani risultano falliti: sono incapaci di ascolto e di contatti reali perché imprigionati dentro la terribile gabbia mentale dell’ego: oppure tragicamente scontenti di sé e della vita, imbruttiti, sfiduciati, incattiviti; oppure sommersi nelle acque salmastre dell’ignoranza e della stupidità. E vi sono invece altri esseri umani che vivono lieti, sereni, grati della loro condizione: persone sul cui volto risplende la luce dell’intelligenza e della bontà, che hanno saputo conservare la fiducia nella vita, e l’attenzione al suo inesauribile mistero, che non hanno tradito l’energia dell’infanzia ma hanno conservato la capacità di stupirsi e per questo infondono gioia al solo incontrarle. Insomma vi sono persone infelici e colleriche che trasmettono energia negativa e vi sono persone felici e serene che trasmettono energia positiva. Da cosa dipende questa differenza?
Non è facile rispondere, ma io penso che dipenda in gran parte dal lavoro compiuto. Esattamente come quando si vede un giardino o un vigneto e l’occhio esperto riconosce all’istante la qualità della fatica profusa, allo stesso modo, quando si sente parlare o si osserva in azione un essere umano è sufficiente poco per rendersi conto della qualità della sua interiorità e intravedere le erbacce o i frutti saporiti che essa nasconde. Il lavoro interiore infatti consiste anzitutto nello sradicamento delle erbacce e delle malapiante che, chissà perché e chissà da dove, spuntano spesso dentro di noi, e poi nell’assidua coltivazione del terreno in cui riposa il seme del più autentico sé per farlo fiorire e fruttificare.

Una questione di igiene
Volendo esprimere il concetto con un’altra metafora, direi che il lavoro interiore è primariamente una questione di igiene. Quando si parla di igiene pensiamo d’istinto al corpo, il che è normale visto che il corpo si sporca quotidianamente per il fatto stesso di vivere: gli avanzi di cibo si depositano sui denti, il sudore si secca lasciando un sentore di acido, le cellule morte si accumulano, e la continua secrezione di sebo che rende morbida la pelle finisce per renderla anche inevitabilmente maleodorante. Il nostro corpo produce sporcizia per il fatto stesso di essere, non ne può fare a meno, e ci obbliga a lavarlo con cura. Ma io chiedo: questa cura dell’igiene non dovrebbe vale allo stesso modo anche per la nostra interiorità? Non si sporca anche lei per il fatto stesso di vivere? Non richiede anche lei di essere pulita? E se sì, qual è la sua doccia o il suo spazzolino?
Con il termine volutamente neutro di interiorità intendo quella dimensione del nostro essere variamente denominata, per esempio psiche, sé, mente, coscienza, cuore, anima, spirito, ipseità, ego, io … su cui le opinioni degli umani non sono mai state concordi e oggi risultano più confuse che mai. Ebbene il lavoro interiore consiste nel ripulire e risanare questa nostra misteriosa ma reale interiorità. Come ci prendiamo cura del corpo mediante l’igiene personale, così dovremmo lavare, spazzare, strigliare la nostra interiorità. Essere migliori in questa prospettiva è quindi anzitutto una questione di igiene, al fine di ottenere, come di usa dire, una coscienza pulita.
È infatti proprio quella peculiare disposizione della nostra più preziosa energia interiore che chiamiamo coscienza su cui mi soffermerò con attenzione più avanti, il principale fattore che ci fa essere migliori come esseri umani.

Migliori come esseri umani
Migliori come esseri umani? Non sto dicendo migliori come studenti, insegnanti, artigiani, dirigenti, atleti, giudici, imprenditori o che altro, secondo i sempre più esigenti parametri che ci vengono quotidianamente richiesti dal mondo del lavoro, sia per entrarvi sia per rimanervi. Sto dicendo migliori come esseri umani, del tutto a prescindere dalla professione, anche non senza una palpabile ricaduta su di essa, perché quando uno è migliore come essere umano sarà anche migliore professionalmente (a meno che di professione non sia un ladro, un killer o un’altra delle varie figure criminali per interpretare le quali occorre davvero essere “cattivi dentro”). Ma è possibile essere migliori come esseri umani? E prima ancora, cosa significa esattamente?
Essere migliori come esseri umani significa esercitare l’intelligenza in modo da comprendere veramente le diverse situazioni della vita acquisendo quella penetrazione e ponderazione delle cose che si chiama saggezza. Significa esercitare la volontà in modo da dirigerla a volere non il proprio scontato interesse, come fanno d’istinto coloro che sono privi di educazione morale, ma ciò che tutti riconoscono come equo e corretto, cioè la giustizia. Significa rispettare la parola data, rimanere saldi, perseverare, resistere, avere coraggio nell’aprire strade nuove, esercitando la fortezza. Significa procedere con equilibrio, centrare quel giusto mezzo che sa sì che una parola o un’azione sia, come la grande musica, “ben temperata”, praticando la temperanza.
Saggezza*, giustizia, fortezza e temperanza costituiscono le cosiddette virtù cardinali. Denominate così dalla tradizione cristiana, esse sono più antiche di secoli perché provengono dalla filosofia della Grecia classica. Esercitarle quotidianamente significa diventare migliori come esseri umani. Queste virtù, queste disposizioni della nostra energia interiore definibili “forze del bene”, ci possono rendere più saggi, più giusti, più forti, più temperanti e quindi umanamente migliori.

* Nota a piè pagina – Solitamente la prima virtù è denominata prudenza sulla base del latino prudentia, ma tale traduzione, come chiarirò, è un errore.

Sulla gentilezza

Questo articolo è uscito il 20 febbraio 2009, a pagina 38 nel numero 783 di Internazionale.    L’originale era uscito sul Guardian. In Italia Adam Philipps e Barbara Taylor hanno pubblicato Elogio della gentilezza (Ponte alle Grazie). Le illustrazioni sono di Alessandro Gottardo, in arte Shout.

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La gentilezza, disse l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità. Nel corso dei secoli altri pensatori e scrittori hanno espresso lo stesso parere. Oggi, invece, molte persone pensano che questa idea sia inverosimile o, quanto meno, molto sospetta. Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.                                                                                                                                               La gentilezza è diventata un piacere proibito. In un certo senso è sempre rischiosa, perché si fonda sulla sensibilità nei confronti degli altri e sulla capacità di identificarsi con i loro piaceri e con le loro sofferenze. Ma anche se il piacere della gentilezza è rischioso, è una delle cose più appaganti che abbiamo. […]

Testo integrale:  https://www.internazionale.it/notizie/adam-phillips/2018/05/31/gentilezza

Ascolta

 (Autore ignoto)

Quando ti chiedo  di  ascoltarmi  e  tu  inizi  a darmi  il  tuo  parere,  non  fai  ciò  che  ti  ho chiesto.

Quando  ti  chiedo  di  ascoltarmi  e  tu inizi a spiegarmi perchè non dovrei provare ciò che provo, calpesti la mia sensibilità.

Quando  ti  chiedo di ascoltarmi  e  tu  pensi  di  doverti  adoperare  per  risolvere  il  mio problema, mi hai frainteso per quanto strano possa sembrarti.

Ascolta! Chiedo soltanto di essere ascoltato. Non parlarmi, non agire…ascoltami soltanto.  I consigli? Roba scadente. Con pochi soldi potrai trovarli su qualsiasi rotocalco. Io posso farcela da solo. Non sono indifeso. Avvilito si, forse anche esitante, ma non sono privo di risorse.

Quando  fai  per  me  ciò  ch’io  potrei  fare  da me,  aggravi i miei timori e il mio senso di inadeguatezza.  Ma  quando  semplicemente  acccetti  che  io  provo  ciò  che provo, per quanto assurdo possa sembrarti, allora posso smettere  di  convincere  te  e  adoperarmi   per capire cosa cova sotto questo mio sentimento irrazionale.

E  quando  finalmente  colgo  l’invisibile  anche  le  risposte  si palesano e non mi servono consigli.  I  sentimenti  irrazionali  acquistano  significato  quando  si  comprende  ciò  che nascondono.

Forse è per questo che la mia preghiera funziona a volte, con alcuni…perchè Dio è muto   e non dà consigli. Non corregge.  Lui (o Lei)  ascolta soltanto  e  ti lascia fare il tuo lavoro   per arrivare a comprendere da solo.

Dunque, ti prego, ascolta e senti ciò che dico e se anche tu vuoi parlarmi, lasciami finire. Aspetta, tra un attimo sarà il tuo turno e allora sarò io ad ascoltarti.

Il giusto tipo di educazione

Estratto da  “Educare alla vita”  di Jiddu Krishnamurti – Edizioni Oscar Mondadori

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Non è ignorante chi non  ha  studiato,  ma  chi  non conosce se stesso;  anche  una persona  istruita  è stolta se per raggiungere la comprensione si  affida solo ai libri, al sapere e  all’autorità  altrui.   La com-prensione  giunge  solo  con la conoscenza  di  sé,  cioè  con la consapevolezza  del  proprio processo psicologico nella sua totalità. L’educazione, nel suo significato più alto, é la comprensione di sé, perché dentro ciascuno di noi è contenuta tutta l’esistenza.

Quello  che  ora  definiamo   “educazione”   é  solo  un  accumulo   di   informazioni  e  di conoscenze libresche: per acquisirle é sufficiente saper leggere. Un’educazione di questo tipo ci offre un’abile  via di fuga da noi stessi,  ma come tutte le fughe  anch’essa  genera inevitabilmente infelicità. Confusione e conflitto sono il risultato del rapporto sbagliato che abbiamo con le persone, le cose e le idee, e finché non capiamo  questo  rapporto e non lo modifichiamo, il sapere, la raccolta di dati o  un’acquisizione di abilità diverse ci fa solo sprofondare nel caos e nella distruzione.

Per come è organizzata ora la società, mandiamo a scuola i nostri  figli  perché  imparino delle tecniche con cui un giorno potranno guadagnarsi da vivere. Prima di tutto vogliamo che diventino degli specialisti, sperando così di garantire loro una  posizione  economica sicura. Ma coltivare una tecnica ci rende davvero capaci di capire noi stessi?

Certo  è  necessario  saper  leggere  e  scrivere,  e anche imparare un mestiere,  diventare ingegneri o altro,  ma la tecnica ci dà forse la capacità di comprendere la vita? Essa non è la cosa più importante e se diventa  l’unico  bene  per  cui  lottiamo,  vuol  dire che stiamo negando la parte più importante dell’esistenza.

La vita è gioia, dolore, bellezza, bruttezza, amore,  e  quando  la   comprendiamo nella sua totalità, a tutti livelli, allora la nostra comprensione crea la sua propria tecnica. Ma non vale il contrario: la tecnica non è mai in grado di generare una comprensione creativa.

[…] Se coltiviamo la capacità e l’efficienza senza comprendere la vita, senza la percezione totale delle modalità  del  pensiero  e del desiderio,  diventiamo sempre più spietati, provo-chiamo guerre  e  mettiamo a  repentaglio  la  nostra  stessa  vita. Lo studio esclusivo della tecnica ha prodotto scienziati, matematici,  ingegneri,  astronauti,  ma  davvero  essi  com-prendono processo globale dell’esistenza? Uno specialista in grado di sperimentare la vita nella sua totalità? Di certo solo quando smette di essere uno specialista.

Il progresso tecnologico risolve alcuni tipi di problemi per un dato numero di persone  e  a un certo livello, ma genera anche problematiche più profonde e più ampie. Vivere a un solo livello,  ignorando il processo totale della vita, comporta infelicità  e  distruzione.  Il bisogno più grande di ogni individuo, il suo problema più urgente, é quello di  avere  una  compren-sione  integrale  della  vita che  lo  aiuti  ad  affrontarne  la  complessità  sempre crescente.

Il sapere tecnico, benché necessario, non risolverà in alcun modo i nostri conflitti o il nostro disagio psicologico;  ed  è  proprio  perché  abbiamo  acquisito  un  sapere  tecnico  senza comprendere il processo totale dell’esistenza  che la tecnologia è diventata uno strumento di distruzione.  L’uomo  che  sa  scindere l’atomo, ma non ha l’amore nel cuore diventa un mostro.

[…] Il lavoro  può  tenerci  occupati  per  quasi  tutta l’esistenza, ma gli oggetti che  produ-ciamo e che ci mandano in estasi  sono gli stessi  che  causano  distruzione  e  miseria.  I nostri atteggiamenti e i nostri valori fanno dei beni materiali e delle professioni gli strumenti di invidia, amarezza e odio.

Senza la comprensione di sé, il lavoro genera solo frustrazione  e  il desiderio inevitabile di evadere anche attraverso comportamenti nocivi.  […] Il  progresso  tecnologico è meravi-glioso,  ma  ha  di  fatto  accresciuto  la  nostra  capacità  di  distruggerci   a  vicenda,  e dappertutto c’è fame miseria. Non siamo felici né in pace.

Quando  il  dovere  diventa  la  cosa  più importante,  la  vita si fa monotona e noiosa, una routine  sterile  e  meccanica  da  cui  cerchiamo  di  fuggire  distraendoci.  L’accumulo  di conoscenze  e  lo sviluppo  di  abilità,  che  chiamiamo  educazione,  ci  ha  privato  della pienezza di una vita e di un comportamento integri. Poiché non capiamo il processo totale dell’esistenza ci aggrappiamo all’efficienza e alla capacità,  che assumono così un’impor-tanza spropositata.  Ma  la  parte  non  può  farci  comprendere  il  tutto,  che può essere abbracciato solo con l’azione e l’esperienza.

Un altro aspetto dell’istruzione tecnica é che essa ci dà un senso di sicurezza,  non  solo economica, ma anche psicologica; é rassicurante sapere che siamo  capaci  ed  efficienti. Saper suonare il piano o  costruirsi  la  casa  ci  dà  un  senso  di  vitalità,  di indipendenza aggressiva;  ma  dare  enfasi  eccessiva  le  proprie  abilità  per  un  desiderio di sicurezza psicologica significa negare la pienezza della  vita.  Non  si  può  prevedere  cosa  essa ci riservi, dobbiamo farne esperienza momento  per  momento;  ma  noi  temiamo l’ignoto, e così definiamo spazi psicologici di sicurezza sotto forma di sistemi, tecniche e dottrine. Finché cerchiamo la sicurezza interiore non possiamo capire il processo della vita nella sua totalità.

Il giusto tipo di educazione,  pur  incoraggiando  l’apprendimento  di  tecniche,  dovrebbe realizzare un fine molto più  importante: aiutare l’individuo a sperimentare il processo inte-grale della vita. Solo così la capacità e la tecnica trovano la loro giusta collocazione. Se si ha davvero qualcosa da dire, il fatto stesso di dirlo crea un suo stile  proprio; ma imparare uno stile senza l’esperienza interiore produce solo superficialità.

Ovunque  ci  si  affanna  a progettare macchine che non abbiano bisogno dell’uomo  per funzionare.  In un mondo governato quasi interamente dalle macchine, che ne sarà degli esseri umani?  Avremo sempre più tempo libero senza sapere come impiegarlo in  modo costruttivo e cercheremo di evadere attraverso il sapere, i divertimenti futili o gli ideali.

Si sono scritti tantissimi libri sull’educazione ideale, eppure siamo più confusi che mai.  Non esiste un metodo per  educare  un  bambino a essere  libero e integro.  Finché  ci preoccupiamo dei principi, degli ideali e dei metodi,  non aiutiamo l’individuo a liberarsi dall’egocentrismo con il suo carico di paure e conflitti.

Gli ideali e i programmi per un’utopia perfetta non produrranno mai il mutamento radicale del cuore, essenziale per porre fine alla guerra e alla distruzione universale.  Gli ideali non possono trasformare  i  nostri valori attuali, il cambiamento può venire  solo  grazie  a  un giusto  tipo di educazione, che deve favorire la comprensione di ciò che è.

Quando lavoriamo insieme per un ideale, per il futuro,  formiamo  gli  individui  secondo  il concetto che abbiamo in mente; non siamo affatto interessati  agli  esseri umani, ma solo alla nostra idea di come dovrebbero essere. Come una persona dovrebbe essere diventa molto più importante  di  come è realmente, con tutte le sue complessità. Se cominciamo comprendere  l’individuo  direttamente, invece di considerarlo per come dovrebbe essere secondo noi,  allora siamo interessati a ciò che è.  A  questo  punto non vogliamo più  tra-sformarlo in qualcosa d’altro; la nostra preoccupazione principale diviene quella di aiutarlo a comprendere se stesso, senza motivazioni  o vantaggi personali.  Se siamo  pienamente consapevoli di ciò che è,  allora possiamo comprenderlo ed esserne liberi; ma per essere consapevoli di ciò che siamo, dobbiamo smettere di affannarci per ciò che non siamo.

Gli ideali non hanno posto nell’educazione  perché  ostacolano  la  comprensione del pre-sente: possiamo diventare consapevoli di ciò che è solo se non ci rifugiamo nel futuro. Guardare al futuro, lottare per un ideale, indica pigrizia mentale e il desiderio di  evitare il presente.

Inseguire un’utopia preconfezionata non equivale  forse  a  negare  la  libertà  e  l’integrità dell’individuo? Quando seguiamo un ideale, uno schema, una formula che ci indicano ciò che  dovrebbe  essere,  non  viviamo  una  vita  superficiale e da automi?  Non  abbiamo bisogno di idealisti o di menti meccaniche,  ma  di  persone integre, intelligenti e libere. Il progetto di una società perfetta ci porta solo a batterci e a spargere sangue per ciò che dovrebbe essere, mentre continuiamo a ignorare ciò che è.

[…] Tra ora e il futuro vi è un intervallo immenso durante il quale subiremo molte influenze, e se sacrifichiamo il presente per il futuro stiamo usando mezzi sbagliati per un fine  forse anche giusto.  Ma i  mezzi determinano il  fine,  e  poi  chi  siamo  noi  per  decidere cosa dovrebbe essere una persona?  Con  che  diritto  cerchiamo  di  plasmarla secondo  uno schema preciso, appreso dai  libri o determinato dalle nostre ambizioni, dai nostri timori o dalle nostre speranze?

Il tipo  giusto  di  educazione  non  è  interessato  ad  alcuna ideologia, per quanto questa possa promettere un’utopia futura; non si basa su un sistema, neanche se è stato vagliato con cura; non è neppure uno strumento per condizionare l’individuo in un modo particola-re.  Educare  nel  vero  senso  del termine significa aiutare una persona a essere matura e libera, e a fiorire in amore e bontà.
[…]   Solo l’amore ci permette di capire l’altro.  Dove  c’è  amore  c’è  anche  comunione immediata, sullo stesso piano e simultaneamente.