Il cuore dell’uomo non è mai nato definitivamente

Estratto da “Anam Cara” di John O’Donohue – Edizioni Corbaccio

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All we need is love                                                        Beatles

 

 

Anche se il corpo umano nasce completo in un solo momento, il cuore dell’uomo non è mai nato definitivamente, ma viene alla luce in ogni esperienza della nostra vita. Tutto quanto ci accade ha la potenzialità di renderci più profondi, portando la luce dentro di noi nuovi territori del cuore. Patrick Kavanagh coglie il senso della benedizione dell’avveni-mento: “Sia lode, lode, lode /Il modo in cui accade e il modo in cui è”. Uno dei sacramenti più belli della tradizione cristiana é quello del battesimo, del cui rituale fa parte una speciale consacrazione del cuore del bambino. Il battesimo proviene dalla tradizione ebraica e, per gli ebrei, il cuore era il centro di tutte le emozioni; esso viene consacrato essendo uno degli organi principali per la salute del bambino, ma anche come luogo in cui faranno il nido tutti suoi sentimenti. Si prega perché il nuovo essere non resti mai intrappolato avviluppato in false reti interiori di negatività, risentimento o autodistruzione e si auspica che nel corso della vita egli abbia facilità di sentimenti, che le sue emozioni possano fluire liberamente e condurre la sua anima nel mondo e da esso raccogliere gioia e pace.

Di fronte all’infinità del cosmo e alle silenziose profondità della natura, il volto dell’uomo risplende come l’icona dell’intimità. È qui, in questa icona della presenza umana, che la divinità in creazione giunge più vicina a se stessa. Il volto umano é l’icona della creazione, e ciascuno possiede anche un volto interiore, sempre intuito ma mai visto. Il cuore è il volto interiore della vita e il viaggio dell’uomo è una lotta per renderlo leggiadro. È qui che l’amore si raccoglie in noi, e l’amore è essenziale per una vita umana, perché esso soltanto può destare il divino che è in noi; nell’amore cresciamo e ritorniamo a casa da noi stessi: quando impariamo ad amare e a lasciarci amare, facciamo ritorno nel cuore del nostro spirito, dove siamo riscaldati e protetti. Nella dimora del nostro desiderio e della nostra appartenenza siamo perfettamente a nostro agio, in questa crescita e ritorno sta l’inaspettato premio nell’atto di amare un altro. L’amore ha inizio col prestare attenzione agli altri, un gesto di benigno auto-oblìo. Paradossalmente, è in questa condizione che cresciamo. Quando l’anima si é destata, la ricerca ha inizio e non possiamo più tornare indietro: da quel momento arde in noi uno struggimento che non ci permetterà di attardarci nella pianura dell’autocompiacimento e di una realizzazione incompleta. L’eterno ci rende incalzanti: quando questo sentiero spirituale si apre, possiamo donare al mondo e alle vite degli altri una generosità incredibile. Talvolta è facile essere generosi verso l’esterno, dare e dare e dare rimanendo meschini con noi stessi. Se siamo donatori generosi ma non sappiamo ricevere, perdiamo l’equilibrio dell’anima: dobbiamo essere generosi con noi stessi per accogliere l’amore che ci circonda. Abbiamo sofferto per un disperato bisogno di essere amati, abbiamo cercato per lunghi anni in luoghi solitari, molto lontano da noi e tuttavia, per tutto il tempo, questo amore è stato soltanto a pochi passi da noi: é al limitare della nostra anima, ma non siamo stati consapevoli della sua presenza. A causa di qualche ferita una porta si è chiusa violentemente nel cuore non abbiamo la forza di riaprirla e di accogliere l’amore. Per essere capaci di ricevere dobbiamo restare vigili; come ha detto Boris Pasternak: ”Quando un grande istante bussa alla porta della nostra vita, spesso non è più forte del battito del cuore, ed è molto facile non sentirlo”.

Il mondo ama il potere e il possesso. Possiamo essere stimati uomini di successo,  avere beni infiniti, una splendida famiglia, riuscire nel lavoro e disporre di tutto quanto il mondo può offrirci, ma, nonostante ciò, essere completamente smarriti e infelici. Se possediamo tutto quanto il mondo può offrirci, ma non abbiamo l’amore, allora siamo più miseri del più povero dei poveri. Ogni cuore umano anela all’amore; se nel nostro cuore manca il suo calore, non è possibile un’autentica felicità e gioia. Non importa dove siamo, chi siamo, cosa siamo o quale tipo di viaggio stiamo compiendo, tutti abbiamo bisogno di amore. Numerosi capitoli dell’Etica di Aristotele sono dedicati alla riflessione sull’amicizia, che egli fonda sull’idea di bontà e bellezza: amico é chi desidera il bene dell’altro. Aristotele riconosce come, nella complessità dell’individuo, l’interiorità rispecchi e si completi nella scoperta e nell’esercizio dell’amicizia: “I nostri sentimenti nei confronti degli amici riflettono quelli verso noi stessi”. Egli riconosce anche che, per coltivare una vera amicizia, è necessaria pazienza: ”Il desiderio di amicizia si sviluppa rapidamente, non così l’amicizia”.   L’amicizia é la grazia che riscalda e addolcisce la nostra vita: ”Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici anche se avesse tutti gli altri beni”.

 

 

I nostri difetti di fabbrica

Estratto da “Forte come l’acqua”  di Filippo Ongaro  – Sperling & Kupfer Edizioni

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Tu ti conosci?
È sicuro che ti conosci
se scopri più difetti in te che negli altri.
C. F. Hebbel (1813-1863)

 

 

Ogni essere umano ha un desiderio innato di semplificare. Vorremmo che le cose fossero bianche o nere, ma di fatto nulla di noi e della vita è così. La natura umana é complessa, contorta, fatta di tanti livelli che non sempre cooperano tra loro. E alla fine siamo, in ogni momento della nostra esistenza, il prodotto di ciò che c’è accaduto fino ad allora: sia delle cose belle sia di quelle brutte che avremmo voluto evitare. E non solo: siamo anche il prodotto, il risultato tangibile di ciò che è accaduto a ogni individuo nella storia della nostra evoluzione.
Tutti i dolori e le gioie, le fatiche e le ricompense che ogni rappresentante della nostra specie ha vissuto lungo la storia dell’evoluzione hanno lasciato una qualche traccia dentro di noi, nel nostro DNA. L’evoluzione non cancella il passato, ma via via, unisce pezzi che forniscono funzionalità aggiuntive. La corteccia cerebrale ci ha permesso di sviluppare il ragionamento complesso, la consapevolezza e il linguaggio, ma non per questo è stata in grado di eliminare la reazione di rabbia del cervello antico che scatta quando qualcuno ci fa un torto.
Ecco perché si distingue il cervello in rettile, paleomammifero e corticale a indicare che rimangono vivi in noi i meccanismi del passato: il cervello rettile è dedicato agli istinti di sopravvivenza, quello paleomammifero alle emozioni e all’affettività e quello corticale al ragionamento razionale, al linguaggio e alla pianificazione. Oggi molti preferiscono parlare di sistema 1 e sistema 2, dove il primo é quello rapido, intuitivo, economico, ma impreciso e impulsivo e il secondo invece razionale, lento, ma dispendioso dal punto di vista energetico. Indipendentemente dalla tipologia di suddivisione, dobbiamo ricordarci che non abbiamo il controllo su tutto, anche se ci piacerebbe averlo. E non sono sono le risposte istintive quelle che non controlliamo completamente, ci sono anche numerosi altri comportamenti che incidono sulla riuscita della nostra vita. Paradossalmente uno di questi “difetti” é che ci crediamo molto razionali, anche se non lo siamo affatto. Mi spiego meglio: se alla fine di un ragionamento giungiamo una conclusione, tendiamo a credere che ci siamo arrivati razionalmente e andiamo inconsapevolmente (ossia irrazionalmente) in cerca di conferme. Così ci convinciamo di avere ragione anche quando è palese che non ce l’abbiamo. Tale meccanismo spesso ci espone a dei rischi evitabili se solo fossimo capaci di avere una visione più obiettiva.

La nostra società si basa su questo ”difetto di fabbrica” e infatti si tende a dare credito a chi si dimostra più convinto e non a chi è più saggio anche nel riconoscere i propri dubbi. Il dubbio, invece di essere apprezzato come una posizione intelligente di fronte a tanti misteri della vita, viene visto come un segno di debolezza. “Se ci crede così tanto deve essere vero”, ci diciamo, ma spesso non lo è. Nella maggior parte dei casi siamo solo di fronte all’ennesimo personaggio borioso convinto di avere sempre ragione. La storia è piena di disastri causati da persone assolutamente convinte di essere nel giusto.        Anche se ci secca ammetterlo, anche se pensiamo di essere razionali nei nostri giudizi nei confronti del mondo e degli altri, a volte non è così. Più spesso di quanto crediamo ci facciamo ingannare dalle apparenze e dall’aspetto esteriore delle persone delle cose. In psicologia viene definito “effetto alone” quel pattern cognitivo per cui la percezione di un tratto viene influenzata dalla percezione di altre caratteristiche della persona. Per esempio, tendiamo giudicare perbene una persona vestita in modo elegante anche se non lo é.
Un altro fenomeno cui siamo esposti in modi che fatichiamo a credere possibili é il condizionamento del gruppo. Da una parte c’è il desiderio di appartenenza e la paura del rifiuto, dall’altra c’è il contagio sociale che avviene a nostra insaputa. Ci facciamo condizionare nei comportamenti, nei gusti e nelle scelte da chi ci circonda. E ovviamente, cambiare strada per esprimere se stessi e la propria originalità risulta assai più difficile che uniformarsi.
Un ulteriore aspetto che limita la nostra interazione con la realtà é il senso di fastidio che ci provocano gli insuccessi. Ogni fallimento così come ciascun piccolo o grande errore potrebbero essere usati come lezioni per apprendere come migliorarci futuro. Ma riflettere su di essi ci dà fastidio e quindi tendiamo a dimenticarcene il più rapidamente possibile. Insomma, troppo spesso crediamo di avere ragione, ci sentiamo meglio degli altri, critichiamo, giudichiamo e ci lamentiamo, ma non abbiamo alcun reale diritto di farlo. L’esempio tipico è la persona che, imbottigliata nel traffico, si spazientisce senza considerare che è tanto vittima quanto causa del traffico stesso. Ci piace sentirci diversi, più razionali e migliori, ma proprio questo compiacimento è un freno a progredire, non tanto rispetto agli altri, quanto a come eravamo ieri.

Sulla gentilezza

Questo articolo è uscito il 20 febbraio 2009, a pagina 38 nel numero 783 di Internazionale.    L’originale era uscito sul Guardian. In Italia Adam Philipps e Barbara Taylor hanno pubblicato Elogio della gentilezza (Ponte alle Grazie). Le illustrazioni sono di Alessandro Gottardo, in arte Shout.

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La gentilezza, disse l’imperatore e filosofo Marco Aurelio, è la delizia più grande dell’umanità. Nel corso dei secoli altri pensatori e scrittori hanno espresso lo stesso parere. Oggi, invece, molte persone pensano che questa idea sia inverosimile o, quanto meno, molto sospetta. Nella nostra immagine degli esseri umani, la gentilezza non è un istinto naturale: siamo tutti pazzi, cattivi, pericolosi e profondamente competitivi. Le persone sono mosse dall’egoismo e gli slanci verso il prossimo sono forme di autoconservazione.                                                                                                                                               La gentilezza è diventata un piacere proibito. In un certo senso è sempre rischiosa, perché si fonda sulla sensibilità nei confronti degli altri e sulla capacità di identificarsi con i loro piaceri e con le loro sofferenze. Ma anche se il piacere della gentilezza è rischioso, è una delle cose più appaganti che abbiamo. […]

Testo integrale:  https://www.internazionale.it/notizie/adam-phillips/2018/05/31/gentilezza

Ascolta

 (Autore ignoto)

Quando ti chiedo  di  ascoltarmi  e  tu  inizi  a darmi  il  tuo  parere,  non  fai  ciò  che  ti  ho chiesto.

Quando  ti  chiedo  di  ascoltarmi  e  tu inizi a spiegarmi perchè non dovrei provare ciò che provo, calpesti la mia sensibilità.

Quando  ti  chiedo di ascoltarmi  e  tu  pensi  di  doverti  adoperare  per  risolvere  il  mio problema, mi hai frainteso per quanto strano possa sembrarti.

Ascolta! Chiedo soltanto di essere ascoltato. Non parlarmi, non agire…ascoltami soltanto.  I consigli? Roba scadente. Con pochi soldi potrai trovarli su qualsiasi rotocalco. Io posso farcela da solo. Non sono indifeso. Avvilito si, forse anche esitante, ma non sono privo di risorse.

Quando  fai  per  me  ciò  ch’io  potrei  fare  da me,  aggravi i miei timori e il mio senso di inadeguatezza.  Ma  quando  semplicemente  acccetti  che  io  provo  ciò  che provo, per quanto assurdo possa sembrarti, allora posso smettere  di  convincere  te  e  adoperarmi   per capire cosa cova sotto questo mio sentimento irrazionale.

E  quando  finalmente  colgo  l’invisibile  anche  le  risposte  si palesano e non mi servono consigli.  I  sentimenti  irrazionali  acquistano  significato  quando  si  comprende  ciò  che nascondono.

Forse è per questo che la mia preghiera funziona a volte, con alcuni…perchè Dio è muto   e non dà consigli. Non corregge.  Lui (o Lei)  ascolta soltanto  e  ti lascia fare il tuo lavoro   per arrivare a comprendere da solo.

Dunque, ti prego, ascolta e senti ciò che dico e se anche tu vuoi parlarmi, lasciami finire. Aspetta, tra un attimo sarà il tuo turno e allora sarò io ad ascoltarti.

Il giusto tipo di educazione

Estratto da  “Educare alla vita”  di Jiddu Krishnamurti – Edizioni Oscar Mondadori

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Non è ignorante chi non  ha  studiato,  ma  chi  non conosce se stesso;  anche  una persona  istruita  è stolta se per raggiungere la comprensione si  affida solo ai libri, al sapere e  all’autorità  altrui.   La com-prensione  giunge  solo  con la conoscenza  di  sé,  cioè  con la consapevolezza  del  proprio processo psicologico nella sua totalità. L’educazione, nel suo significato più alto, é la comprensione di sé, perché dentro ciascuno di noi è contenuta tutta l’esistenza.

Quello  che  ora  definiamo   “educazione”   é  solo  un  accumulo   di   informazioni  e  di conoscenze libresche: per acquisirle é sufficiente saper leggere. Un’educazione di questo tipo ci offre un’abile  via di fuga da noi stessi,  ma come tutte le fughe  anch’essa  genera inevitabilmente infelicità. Confusione e conflitto sono il risultato del rapporto sbagliato che abbiamo con le persone, le cose e le idee, e finché non capiamo  questo  rapporto e non lo modifichiamo, il sapere, la raccolta di dati o  un’acquisizione di abilità diverse ci fa solo sprofondare nel caos e nella distruzione.

Per come è organizzata ora la società, mandiamo a scuola i nostri  figli  perché  imparino delle tecniche con cui un giorno potranno guadagnarsi da vivere. Prima di tutto vogliamo che diventino degli specialisti, sperando così di garantire loro una  posizione  economica sicura. Ma coltivare una tecnica ci rende davvero capaci di capire noi stessi?

Certo  è  necessario  saper  leggere  e  scrivere,  e anche imparare un mestiere,  diventare ingegneri o altro,  ma la tecnica ci dà forse la capacità di comprendere la vita? Essa non è la cosa più importante e se diventa  l’unico  bene  per  cui  lottiamo,  vuol  dire che stiamo negando la parte più importante dell’esistenza.

La vita è gioia, dolore, bellezza, bruttezza, amore,  e  quando  la   comprendiamo nella sua totalità, a tutti livelli, allora la nostra comprensione crea la sua propria tecnica. Ma non vale il contrario: la tecnica non è mai in grado di generare una comprensione creativa.

[…] Se coltiviamo la capacità e l’efficienza senza comprendere la vita, senza la percezione totale delle modalità  del  pensiero  e del desiderio,  diventiamo sempre più spietati, provo-chiamo guerre  e  mettiamo a  repentaglio  la  nostra  stessa  vita. Lo studio esclusivo della tecnica ha prodotto scienziati, matematici,  ingegneri,  astronauti,  ma  davvero  essi  com-prendono processo globale dell’esistenza? Uno specialista in grado di sperimentare la vita nella sua totalità? Di certo solo quando smette di essere uno specialista.

Il progresso tecnologico risolve alcuni tipi di problemi per un dato numero di persone  e  a un certo livello, ma genera anche problematiche più profonde e più ampie. Vivere a un solo livello,  ignorando il processo totale della vita, comporta infelicità  e  distruzione.  Il bisogno più grande di ogni individuo, il suo problema più urgente, é quello di  avere  una  compren-sione  integrale  della  vita che  lo  aiuti  ad  affrontarne  la  complessità  sempre crescente.

Il sapere tecnico, benché necessario, non risolverà in alcun modo i nostri conflitti o il nostro disagio psicologico;  ed  è  proprio  perché  abbiamo  acquisito  un  sapere  tecnico  senza comprendere il processo totale dell’esistenza  che la tecnologia è diventata uno strumento di distruzione.  L’uomo  che  sa  scindere l’atomo, ma non ha l’amore nel cuore diventa un mostro.

[…] Il lavoro  può  tenerci  occupati  per  quasi  tutta l’esistenza, ma gli oggetti che  produ-ciamo e che ci mandano in estasi  sono gli stessi  che  causano  distruzione  e  miseria.  I nostri atteggiamenti e i nostri valori fanno dei beni materiali e delle professioni gli strumenti di invidia, amarezza e odio.

Senza la comprensione di sé, il lavoro genera solo frustrazione  e  il desiderio inevitabile di evadere anche attraverso comportamenti nocivi.  […] Il  progresso  tecnologico è meravi-glioso,  ma  ha  di  fatto  accresciuto  la  nostra  capacità  di  distruggerci   a  vicenda,  e dappertutto c’è fame miseria. Non siamo felici né in pace.

Quando  il  dovere  diventa  la  cosa  più importante,  la  vita si fa monotona e noiosa, una routine  sterile  e  meccanica  da  cui  cerchiamo  di  fuggire  distraendoci.  L’accumulo  di conoscenze  e  lo sviluppo  di  abilità,  che  chiamiamo  educazione,  ci  ha  privato  della pienezza di una vita e di un comportamento integri. Poiché non capiamo il processo totale dell’esistenza ci aggrappiamo all’efficienza e alla capacità,  che assumono così un’impor-tanza spropositata.  Ma  la  parte  non  può  farci  comprendere  il  tutto,  che può essere abbracciato solo con l’azione e l’esperienza.

Un altro aspetto dell’istruzione tecnica é che essa ci dà un senso di sicurezza,  non  solo economica, ma anche psicologica; é rassicurante sapere che siamo  capaci  ed  efficienti. Saper suonare il piano o  costruirsi  la  casa  ci  dà  un  senso  di  vitalità,  di indipendenza aggressiva;  ma  dare  enfasi  eccessiva  le  proprie  abilità  per  un  desiderio di sicurezza psicologica significa negare la pienezza della  vita.  Non  si  può  prevedere  cosa  essa ci riservi, dobbiamo farne esperienza momento  per  momento;  ma  noi  temiamo l’ignoto, e così definiamo spazi psicologici di sicurezza sotto forma di sistemi, tecniche e dottrine. Finché cerchiamo la sicurezza interiore non possiamo capire il processo della vita nella sua totalità.

Il giusto tipo di educazione,  pur  incoraggiando  l’apprendimento  di  tecniche,  dovrebbe realizzare un fine molto più  importante: aiutare l’individuo a sperimentare il processo inte-grale della vita. Solo così la capacità e la tecnica trovano la loro giusta collocazione. Se si ha davvero qualcosa da dire, il fatto stesso di dirlo crea un suo stile  proprio; ma imparare uno stile senza l’esperienza interiore produce solo superficialità.

Ovunque  ci  si  affanna  a progettare macchine che non abbiano bisogno dell’uomo  per funzionare.  In un mondo governato quasi interamente dalle macchine, che ne sarà degli esseri umani?  Avremo sempre più tempo libero senza sapere come impiegarlo in  modo costruttivo e cercheremo di evadere attraverso il sapere, i divertimenti futili o gli ideali.

Si sono scritti tantissimi libri sull’educazione ideale, eppure siamo più confusi che mai.  Non esiste un metodo per  educare  un  bambino a essere  libero e integro.  Finché  ci preoccupiamo dei principi, degli ideali e dei metodi,  non aiutiamo l’individuo a liberarsi dall’egocentrismo con il suo carico di paure e conflitti.

Gli ideali e i programmi per un’utopia perfetta non produrranno mai il mutamento radicale del cuore, essenziale per porre fine alla guerra e alla distruzione universale.  Gli ideali non possono trasformare  i  nostri valori attuali, il cambiamento può venire  solo  grazie  a  un giusto  tipo di educazione, che deve favorire la comprensione di ciò che è.

Quando lavoriamo insieme per un ideale, per il futuro,  formiamo  gli  individui  secondo  il concetto che abbiamo in mente; non siamo affatto interessati  agli  esseri umani, ma solo alla nostra idea di come dovrebbero essere. Come una persona dovrebbe essere diventa molto più importante  di  come è realmente, con tutte le sue complessità. Se cominciamo comprendere  l’individuo  direttamente, invece di considerarlo per come dovrebbe essere secondo noi,  allora siamo interessati a ciò che è.  A  questo  punto non vogliamo più  tra-sformarlo in qualcosa d’altro; la nostra preoccupazione principale diviene quella di aiutarlo a comprendere se stesso, senza motivazioni  o vantaggi personali.  Se siamo  pienamente consapevoli di ciò che è,  allora possiamo comprenderlo ed esserne liberi; ma per essere consapevoli di ciò che siamo, dobbiamo smettere di affannarci per ciò che non siamo.

Gli ideali non hanno posto nell’educazione  perché  ostacolano  la  comprensione del pre-sente: possiamo diventare consapevoli di ciò che è solo se non ci rifugiamo nel futuro. Guardare al futuro, lottare per un ideale, indica pigrizia mentale e il desiderio di  evitare il presente.

Inseguire un’utopia preconfezionata non equivale  forse  a  negare  la  libertà  e  l’integrità dell’individuo? Quando seguiamo un ideale, uno schema, una formula che ci indicano ciò che  dovrebbe  essere,  non  viviamo  una  vita  superficiale e da automi?  Non  abbiamo bisogno di idealisti o di menti meccaniche,  ma  di  persone integre, intelligenti e libere. Il progetto di una società perfetta ci porta solo a batterci e a spargere sangue per ciò che dovrebbe essere, mentre continuiamo a ignorare ciò che è.

[…] Tra ora e il futuro vi è un intervallo immenso durante il quale subiremo molte influenze, e se sacrifichiamo il presente per il futuro stiamo usando mezzi sbagliati per un fine  forse anche giusto.  Ma i  mezzi determinano il  fine,  e  poi  chi  siamo  noi  per  decidere cosa dovrebbe essere una persona?  Con  che  diritto  cerchiamo  di  plasmarla secondo  uno schema preciso, appreso dai  libri o determinato dalle nostre ambizioni, dai nostri timori o dalle nostre speranze?

Il tipo  giusto  di  educazione  non  è  interessato  ad  alcuna ideologia, per quanto questa possa promettere un’utopia futura; non si basa su un sistema, neanche se è stato vagliato con cura; non è neppure uno strumento per condizionare l’individuo in un modo particola-re.  Educare  nel  vero  senso  del termine significa aiutare una persona a essere matura e libera, e a fiorire in amore e bontà.
[…]   Solo l’amore ci permette di capire l’altro.  Dove  c’è  amore  c’è  anche  comunione immediata, sullo stesso piano e simultaneamente.