Perchè c’è bisogno di maghi

Estratto da “L’antica saggezza dell’anima” di Deepak Chopra  – Edizioni Sperling

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Per trent’anni mi sono occupato della saggezza dei maghi. Sono andato fino a Glastonbury e ho percorso la West Country, mi sono arrampicato fino al Tor e ho visto la collina dove si ritiene che riposino Artù e i suoi cavalieri. Ma vi è qualcosa di più mistico, il bisogno di trasformazione, che continua a spingermi verso la magia. Trovo sempre più che il nostro tempo abbia estremo bisogno di questa conoscenza. Oggi, da adulto, parlo e scrivo per professione di come raggiungere libertà e soddisfazione totali. Solo di recente ho capito che l’oggetto dei miei discorsi è l’alchimia.

Sono giunto alla conclusione che una chiave interesssante per avvicinarsi a questa materia ci è offerta da una delle più incantevoli relazioni che siano mai state descritte: quella fra Merlino e il ragazzo Artù nella grotta di cristallo.  Il punto di vista di questo libro è che la grotta di cristallo è un luogo privilegiato del cuore umano. È il rifugio sicuro dove la voce della saggezza non conosce paura, dove il tumulto del mondo esterno non può entrare. C’è sempre stato un mago nella grotta di cristallo e continuerà a esserci in eterno: dovete solo entrare e disporvi ad ascoltare.

La moderna umanità vive nel mondo della magia tanto quanto le generazioni passate. Joseph Campbell, il grande insegnante di mitologia, affermava che chiunque se se stia all’angolo di una strada ad aspettare che il semaforo diventi verde è in attesa di muovere un passo nel  mondo dei gesti eroici e delle azioni mitiche. Semplicemente non ce ne accorgiamo. Attraversiamo la strada senza vedere la spada nella roccia ritta sull’orlo del marciapiede.

Il viaggio miracoloso comincia qui. Il momento migliore per cominciare è ora. Il sentiero del mago non ha una collocazione temporale: è ovunque e in nessun posto. Appartiene a tutti e a nessuno. Ecco perchè questo libro non ha altro scopo che quello di reclamare ciò che è già vostro. La prima frase della prima lezione recita: “Vi è un mago in ognuno di noi. Questo mago vede e conosce tutto”.

Questa è l’unica frase del libro che dovete accettare così com’è. Una volta trovato il mago interiore, non c’è più bisogno che altri vi insegni. […] Ho udito Merlino esprimersi fra le risate sopra la mia testa mentre ero all’aeroporto, l’ho sentito sussurrare fra gli alberi mentre scendevo in spiaggia, l’ho ascoltato addirittura per televisione. Se siete aperti, anche una fermata d’autobus può trasformarsi nella grotta di cristallo.

A che cosa serve il sentiero del mago? Serve a tirarci fuori dall’abitudine e dalla noia, verso quel tipo di significato che tendiamo a relegare nel mito, ma che, in realtà, è a portata di mano qui e ora. Essere vivi significa conquistare il diritto di dire ciò che si vuole, di essere ciò che si vuole essere e di fare ciò che si vuole fare. Camelot fu un simbolo di questa libertà. Ecco perchè pensiamo a Camelot con nostalgia e ammirazione. Da allora la vita è diventata difficile.  […]

Tutti desideriamo espanderci in amore e creatività, esplorare la nostra natura spirituale, ma spesso qualcosa ci viene a mancare. Ci rinchiudiamo nelle nostre prigioni. Vi è, però, qualcuno che è riuscito a spezzare i vincoli che rendono ristretta la vita. Ascoltate le parole del poeta persiano Rumi: “Voi siete lo spirito incondizionato catturato dalle condizioni, come un’eclissi di sole.”

Questa è la voce di un mago che non può accettare che l’uomo sia prigioniero del tempo e dello spazio. La nostra eclissi è temporanea. Imparare da un mago significa trovare il proprio mago interiore. Una volta trovata la guida interiore, avrete trovato voi stessi. Il sè è il sole eternamente splendente e può essere temporaneamente eclissato, ma, passate le nuvole, il sole riappare in tutta la sua gloria.

 

 

 

 

 

Al di là della solitudine

Estratto da “Sull’Amore e la Solitudine” – J. Krishnamurti, Ed. Astrolabio

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Continua da ” Perchè la nostra vita è vuota?

Per andare al di là della solitudine, del senso di vuoto, bisogna comprendere come funziona la mente. Che cos’è ciò che chiamiamo vuoto, solitudine? Perché lo chiamiamo vuoto o solitudine? Con che strumento di misura diciamo che è questo e non quello? Qual è il punto di riferimento per definire qualcosa “vuoto” o “solo”? Il punto di riferimento è sempre il passato. Definendolo vuoto, gli applicate un nome e perciò credete di conoscerlo. Ma denominare una cosa non è un ostacolo alla sua comprensione? Molti di noi avvertono questa solitudine da cui vogliamo fuggire. Molti di noi sono consapevoli della povertà interiore, della manchevolezza interiore. Non è una reazione vana, è una realtà, e applicargli un nome non lo risolve. Continua a esserci. Come fare per conoscerne la natura, il senso? Dovete forse dare un nome a qualcosa per conoscerlo? Mi conoscete solo perché sapete come mi chiamo? Mi conoscere solo guardandomi, entrando in comunione con me; ma applicarmi un nome, incollarmi una definizione, mette fine alla nostra comunione. Per conoscere la natura di ciò che chiamiamo solitudine dobbiamo entrare in comunione con essa, e la comunione è impedita non appena le applichiamo un nome. Se vogliamo comprendere qualcosa, dobbiamo in primo luogo smettere di denominarlo. Se volete comprendere pienamente vostro figlio, cosa di cui dubito, che cosa fate? Lo guardate, osservate come gioca, lo studiate. In altre porle, dovete amare ciò che volete comprendere. Se amate una cosa, entrate naturalmente in comunione con essa. Ma l’amore non è una parola, né un nome e né un pensiero. Non potete amare ciò che chiamate solitudine perché non ne fate totalmente l’esperienza, ma l’avvicinate con paura, e non con paura della solitudine, ma di qualcos’altro. Non avete mai riflettuto sulla solitudine perché non sapete che cosa sia in realtà. Non ridete, non è una battuta.[…]
Ciò che chiamiamo senso di vuoto è un processo di isolamento prodotto dal nostro modo quotidiano di entrare in rapporto, perché consciamente o inconsciamente, nel rapporto cerchiamo soltanto l’esclusione. Volete essere gli esclusivi proprietari delle vostre ricchezze, di vostra moglie o di vostro marito, dei vostri bambini. Applicate a una persona o a una cosa la definizione mio, che vuol dire proprietà esclusiva. È questo processo di esclusione che porta inevitabilmente all’isolamento, e poiché nulla può esistere in isolamento si crea un conflitto, dal quel vorremmo fuggire. Tutte le possibili forme di fuga (attività sociali, l’alcol, la ricerca di Dio, la puja*, cerimonie, danze e altre divagazioni) sono sullo stesso livello. Se, nella vita quotidiana, vediamo questo continuo tentativo di fuga dal conflitto, e se vogliamo superarlo, dobbiamo comprendere il nostro modo di rapportarci. Solo quando la mente non fugge più, qualunque sia la forma di fuga, è possibile essere in comunione diretta con quella cosa che chiamiamo solitudine, essere soli. Per rimanere in comunione con essa, dobbiamo diventarle amici, dobbiamo provare amore. Per comprendere qualcosa dovete amarlo. L’amore è l’unica rivoluzione, e l’amore non è una teoria, un’idea astratta. Non si impara sui libri, non dipende da modelli sociali prestabiliti.
La soluzione non va cercata nelle teorie, che non fanno che creare ulteriore isolamento. Si trova solo quando la mente, che è pensiero, non vorrà più fuggire dalla solitudine. La fuga alimenta il processo di isolamento, mentre la verità è che ci può essere comunicazione solo dove c’è amore. Solo allora il problema della solitudine verrà risolto.

 

* Puja – Presso la religione induista e anche in molte tradizioni buddhiste, Pūjā (devanagari पूजा) (dal sanscrito reverenza) è un termine che genericamente indica un atto di adorazione verso una particolare forma della Divinità, che può esprimersi in un’offerta (upachara), un culto, una cerimonia o un rito. Fonte: Wikipedia

 

1 gennaio 2023

Estratto da “Pensieri Quotidiani” 2005 di Omraam Mikhaël Aïvanhov – Edizioni Prosveta

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Il più delle volte, per gli uomini, il futuro è motivo di preoccupazione: essi si chiedono continuamente se si troveranno a corto di denaro, se avranno di che mangiare, se avranno un’abitazione e così via. Sono talmente presi da queste preoccupazioni che dimenticano questioni molto più importanti, commettono errori ai quali dovrebbero rimediare ma che non correggono e, siccome tutte queste situazioni si accumulano, alla fine arriva il momento in cui saranno sommersi, schiacciati.

Per evitare di cadere in un simile ingranaggio, è necessario meditare sulle parole di Gesù: “Non affannatevi dunque per il vostro domani, perchè il domani avrà già le sue inquietudini”

Se ogni giorno controllerete che il vostro comportamento sia sempre impeccabile, il domani sarà interamente libero e sarete disponibili per intraprendere ciò che avrete deciso, rimanendo però ancora vigili per non trascinarvi dietro nulla. In questo modo, ogni nuovo giorno vi troverà liberi, ben disposti, pronti a lavorare, a studiare, ad essere contenti, e tutta la vita assumerà un colore straordinario di felicità e di benedizione.

Prestando attenzione a regolare ogni cosa oggi, implicitamente pensate al domani.

 

 

 

 

Il problema dell’interiorità

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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SEGUE DA PARTE PRIMA

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?

Questo nugolo di domande, a cui immagino se ne possano aggiungere altre, rimanda al più grande problema che in questo momento storico incombe su noi postmoderni occidentali. Le epoche passate avevano problemi per lo più legati alla vita fisica come la fame, il freddo, le epidemie, le guerre, oppure legati alla vita sociale come l’acquisizione dei diritti politici, la libertà di stampa, la libertà di religione, l’uguaglianza dei sessi. Gli esseri umani del passato avevano problemi che noi in buona parte abbiamo risolto, visto che mediamente godiamo di sicurezza fisica e di spazi di libertà come mai prima d’ora nella storia. Tuttavia sentiamo che c’è qualcosa che non va. Qual è dunque il nostro problema più grande? Esso riguarda quella dimensione che in precedenza ho chiamato interiorità e consiste nella gestione di questa energia libera dentro di noi, che, se non è gestita o è gestita male, provoca malessere: il quale si manifesta o rimanendo al nostro interno e facendo male a noi stessi, quindi come depressione; oppure uscendo all’esterno e facendo male agli altri, quindi come aggressione, anzitutto nella forma potenziale detta aggressività.

La nostra energia libera ha bisogno di direzione, prospettiva, senso, ma da sola il più delle volte non riesce a trovarli. Per questo nel passato fiorivano le religioni e le ideologie politiche, e sempre per questo ai nostri giorni fiorisce più potente che mai l’industria del cosiddetto intrattenimento, che intrattiene la nostra energia libera alla ricerca di una direzione e che da sola non sa dove trovarla. I sempre più pervasivi mezzi di comunicazione di cui dispone tale industria nutrono e guidano la nostra energia libera che così acquista una direzione, il nostro vuoto interiore si riempie, la nostra solitudine svanisce. Peccato, però, che la direzione venga a coincidere con il consumo, il vuoto sia riempito dalle chiacchiere, la compagnia ci sia offerta da una serie di volti sullo schermo che in quanto meri fantasmi mentali lasciano più soli di prima. E l’intrattenimento non è che un’altra forma, la più sofisticata, della catena che ci tiene o trattiene in vita facendoci prigionieri.

In realtà, il più efficace intrattenimento che la nostra energia libera possa incontrare e di cui si possa nutrire è la bellezza del bene e della comunione umana. Più di ogni fiction e di ogni social, la realtà ideale e reale del bene condiviso è tale da riempire di senso la vita, e dico senso nella triplice valenza del termine: significato, sensazione, direzione. La bellezza del bene condiviso non si limita a intrattenere, ma, molto più profondamente, arriva a contenere la nostra energia interiore. La bellezza del bene condiviso non è un intrattenitore, è un grande contenitore. Possiamo dire di essa quanto il Nuovo Testamento dice di Dio, cioè che in lui noi «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo *».

Di sicuro infatti, quando una vita giunge al culmine della fioritura, questo avviene perché avverte di vivere, di muoversi e di esistere nell’amore e come amore, cioè precisamente nella bellezza del bene condiviso, donato e ricevuto, nella sua piena fioritura.

 

* Atti degli apostoli

Cos’è una teoria?

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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Parte prima

Che cos’è una teoria? Il termine deriva dal greco antico e vuol dire «visione», ha la stessa radice di teatro e lo stesso significato di idea, che a sua volta letteralmente significa «visione». In particolare teoria significa «visione d’insieme»: vedo un dato, per esempio un essere umano; poi ne vedo un altro, per esempio un cranio di centomila anni fa; poi un altro ancora, per esempio lo scheletro di un ominide di un milione di anni fa; li collego cercando una spiegazione unitaria e ottengo una teoria, in questo caso la teoria dell’evoluzione. Dove nasce la teoria? Non nel laboratorio, ma nella mente. Ebbene, qual è la teoria nata nella mia mente che intendo presentare in queste pagine sottoponendola alla verifica sperimentale?

La mia teoria
Espongo la mia teoria in un mondo come quello meglio della rabbia, la correttezza meglio della corruzione. Sembrano ovvietà e forse in teoria lo sono, però nella pratica quotidiana, dove spesso imperversano malvagità, disonestà, menzogna, rabbia, corruzione, non lo sono per nulla. Ma in che senso dico «meglio»? In base a un criterio fisico: la vita. Più precisamente, il mio criterio è la vita umana nella completezza delle sue dimensioni che riguardano il corpo, la psiche e lo spirito, intendendo con spirito la facoltà che ci permette talora di essere liberi (cioè consapevoli, creativi, responsabili). La virtù è quanto ci consente di praticare l’igiene della nostra interiorità e così di mantenerla in salute, evitando che l’accumulo della sporcizia produca infezioni interiori paragonabili alle carie che perforano lo smalto dei denti, o peggio alle cellule impazzite dei tumori. La virtù è il più efficace sistema immunitario contro i numerosi agenti patogeni che minacciano la salute della nostra interiorità. È quella preziosa energia interiore difficilmente denominabile ma che fa della nostra vita un’esistenza umana, uno stare al mondo umanamente degno. La mia profonda convinzione è che, per far fiorire la nostra vita a tutti i suoi livelli, la strada più efficace sia la virtù, da intendersi secondo le molteplici declinazioni su cui mi soffermerò in queste pagine. È fondata questa teoria? È sensato parlare di un’etica per vivere bene? Di un’etica per non ammalarsi o per guarire? Esiste veramente un potere igienico e terapeutico della virtù? E se sì, come si esercita in concreto? Rispondere a queste domande costituisce l’esperimento che intendo condurre.

Un nugolo di domande
Sono consapevole delle perplessità che la mia teoria può suscitare a causa del fatto che il concetto di virtù, e più ancora quello di bene, sono ai nostri giorni oggetto di innumerevoli controversie. A dire il vero già molti secoli fa Platone notava che sul bene le idee erano alquanto confuse: «Nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà». Noi oggi però non solo vediamo a stento l’Idea del Bene, ma corriamo il rischio di non vederla per nulla. Per questo ognuno di noi, appena sente parlare di bene e di virtù, non può evitare il sorgere di una serie di domande che lo trasportano in uno scivoloso labirinto concettuale. Le prime riguardano il bene e la virtù dal punto di vista oggettivo:
Esiste il bene in sé? E se sì, cos’è? Oppure dicendo bene ci si riferisce a una dimensione inevitabilmente soggettiva e come tale relativa? E che cos’è, di contro, il male? Esiste il male in sé? Oppure il cosiddetto male dipende ogni volta dalla condizione del soggetto e dalle circostanze, così da risultare anch’esso inevitabilmente relativo? Si può, in altri termini, parlare di «bene assoluto» e di «male assoluto», o tali espressioni sono solo esagerazioni retoriche?
Esiste un bene che sia tale veramente per tutti e che la tradizione chiama «bene comune»? Oppure il bene di alcuni è sempre necessariamente il male di altri, come avviene in natura dove il leone raggiunge il suo bene e quello dei suoi piccoli divorando la gazzella e i suoi piccoli? Come stanno le cose tra gli esseri umani? Anche nel mondo umano il bene di alcuni è necessariamente il male di altri, oppure è possibile almeno in parte superare la legge mors tua vita mea e instaurare uno stato di cooperazione sociale? *
Perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male? Il male talora non può a sua volta produrre bene? E il bene, troppo bene, non finisce a volte per produrre del male?
Che rapporto c’è tra bene e male, e quindi tra virtù e vizi? Si tratta di un rapporto dualistico, che per il darsi del bene e della virtù esclude la presenza del male e del vizio? Oppure si tratta di un rapporto complementare, che per ildarsi del bene e della virtù include la presenza del male e del vizio?

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?