Atomizzazione della società

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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segue da PARTE PRIMA

La scomparsa dei simboli rimanda alla crescente atomizzazione della socità. Al contempo, la società diventa sempre più narcisistica. Il processo di interiorizzazione narcisistica sviluppa un’ostilità nei confronti della forma: le forme oggettive vengono scartate a vantaggio di circostanze soggettive. I riti si sottraggono all’interiorità narcisistica e la libido dell’Io non vi si può agganciare dal momento che, se si concede loro, deve prescindere da se stessa. I riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi depsicologizzano, deinterioirzzano chi li inscena.

Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da un’informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere a una conclusione. Oggi le serie sono così amate probabilmente perchè corrispondono all’abitudine della percezione seriale che, sul piano del consumo mediale, conduce al binge watching, al guardare fino a cadere in coma.  Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni.

[…] Il costante update, che è arrivato a riguardare tutti gli ambiti della vita, non consente alcuna durata, alcuna conclusione. La coazione permanente a produrre conduce a un disaccasamento  (Enthausung), che rende la vita più contingente, effimera e incostante, mentre l’abitare necessita di durata.

Il disturbo da deficit di attenzione scaturisce da un incremento patologico della percezione seriale. La percezione non conosce quiete, disimpara a indugiare. La profonda attenzione, in quanto tecnica culturale, si costruisce proprio a partire dalle pratiche rituali e religiose. Non è un caso che la parola religione derivi da relegere, prendere nota. Ogni pratica religiosa è un esercizio d’attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. Secondo Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega – produce se stessa senza sosta.

Oggigiorno molte forme di ripetizione come l’imparare a memoria vengono tacciate di opprimere la creatività, l’innovazione ecc. Imparare a memoria in francese si dice apprendre par coeur. È evidente che le ripetizioni, da sole, arrivano al cuore. Alla luce del crescente disturbo da deficit di attenzione, non molto tempo fa è stata proposta l’introduzione di una nuova materia scolastica, “Studi rituali”, per praticare nuovamente la ripetitività dei riti in forma di tecnica culturale. Le ripetizioni stabilizzano e acuiscono l’attenzione.

La ripetizione è un tratto essenziale dei riti. Si differenzia dalla routine in quanto capace di generare una particolare intensità. Da dove viene l’intensità che contraddistingue la ripetizione e fa sì che essa non diventi routine?  La ripetizione e il ricordo rappresentano per Kierkegaard il medesimo movimento, ma in opposte direzioni. Ciò che ci si ricorda è passato ed è “ripetuto all’indietro”, mentre la ripetizione autentica “ricorda il suo oggetto in avanti”.  La ripetizione come riconoscimento è quindi una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. In quanto tale, essa stimola la durata e l’intensità, fa sì che il tempo indugi.

Kierkegaard contrappone la ripetizione sia alla speranza, sia al ricordo: La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perchè non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso.

Secondo Kiekegaard “è solo il nuovo ad annoiare”, il vecchio “è pane quotidiano che nutre in abbondanza”. Rende felici: “Felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità”.

Il pane quotidiano non stimola, gli stimoli sbiadiscono in fretta. La ripetizione scopre l’intensità in ciò che è privo di stimoli, nel non appariscente, nell’insipido. Chi invece si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì. Il senso, quindi la via, è reperibile. Non ci si stanca mai della via:

Io posso ripete solo ciò che è del tutto privo di eventi, sebbene qualcosa mi abbia reso felice con la coda dell’occhio (la luce del giorno, o l’imbrunire), già un tramonto è un evento e come tale non ripetibile; non posso neppure ripetere una luce particolare, o un imbrunire, bensì solo una via (e peraltro devo essere pronto a tutte le pietre, anche quelle nuove.  P. Handke.

A caccia di nuovi stimoli, eccitazioni ed esperienze oggi perdiamo la capacità di ripetere. […]  Il vecchio, ciò che è stato, che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento.

Il nuovo si appiattisce rapidamente diventando routine, è una merce che si consuma e riaccende il bisogno di nuovo. La coazione a dover respingere tutto ciò che è routine produce altra routine. Nel nuovo è quindi insita una stuttura temporale che sbiadisce presto in routine, senza consentire alcuna ripetizione appagante.  La coazione a produrre in quanto coazione verso il nuovo non fa perciò che incrementare il pantano della routine. Per sfuggirle, per sfuggire al vuoto, ecco che consumiamo ancora più cose nuove, nuovi stimoli ed esperienze. È proprio il senso di vuoto a trainare la comunicazione e il consumo. Il “vivere intenso” come da pubblicità […] non è altro che un consumo intenso. Dinanzi all’illusione del “vivere intenso” bisogna riflettere su un’altra modalità di vita, più intensa dell’incessante consumare e comunicare.

I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune […]. Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. […] La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.

I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei. Gli ordini e i valori in vigore in una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati. Vengono inscritti nel corpo, incorporati, cioè interiorizzati mediante il corpo. Così i riti creano una conoscenza e una memoria incarnate, un’identità incarnata, un legame incarnato. […] La digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poichè da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è  una comunicazione decorporeizzata.

Nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti, ma il loro soggetto non è l’individuo per sé, isolato. Nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale. I sentimenti collettivi non hanno nulla a che vedere con la psicologia individuale. Nel rito funebre, è la comunità il vero soggetto del lutto: dinanzi all’esperienza della perdita, è essa che se lo impone, e questi sentimenti collettivi la consolidano. La crescente atomizzazione della socità riguarda anche ilsuo equilibrio emotivo. I sentimenti comunitari si formano sempre più di rado. In compenso, impulsi e ardori passeggeri, caratteristici di un individuo isolato, imperversano. Al contrario degli ardori e degli istinti, i sentimenti possono essere comunitari. La comunicazione digitale è un gran parte guidata dagli impulsi, ne favorisce l’immediato sgombero. Twitter si rileva un medium degli impulsi, e la politica che si basa su di esso è una politica impulsiva: la politia è ragione e mediazione, ma la ragione, che possiede una grande intensità temporale, oggi cede sempre più il passo a impulsi momentanei.

[…] Oggi la comunicazione digitale si orienta sempre più verso una comunicazione senza comunità. […]  La comunicazione senza comunità può essere accelerata, in quanto è additiva. I riti sono invece processi narrativi che non consentono alcuna accelerazione.  I simboli stanno fermi. Le informazioni no: esse esistono se circolano. Il silenzio significa solo arresto della comunicazione, non produce nulla. […] Più informazioni, più comuncazione promettono più produzione, così la coazione a produrre si esprime come coazione a comunicare. […]

La depressione non si verifica in una socità caratterizzata dai riti, nellaquale l’anima viene completamente assorbita, e addirittura svuotata, dalle forme rituali. I riti riassumono il mondo, producono un forte rapporto col mondo, mentre alla base della depressione c’è una smodata autoreferenzialità. Del tutto incapaci di uscire da se stessi e di superarsi proiettandosi nel mondo, ci si incapsula. Il mondo scompare. Si ruota su se stessi con un tormentoso senso di vuoto. I riti invece alleviano l’Io dal fardello del sé, lo depsicologizzzano e deinteriorizzano.

 

 

Riti, simboli e coazione a produrre

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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Parte prima

I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis). L’ospite spezza a metà una tavoletta d’argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. Questa è una forma particolare di ripetizione:

Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’“accasamento” umano – una parola di Hegel, che voglio usare in questo caso – il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. Noi tutti lo sappiamo assai bene. Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole (H.G. Gadamer, L’attualità del bello – Marietti ed. 1988).

La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente. I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano. Nel romanzo La cittadella, Antoine de Saint-Exupéry descrive i riti proprio come tecniche temporali dell’accasamento:

E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione.

Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensì un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile. I riti stabilizzano la vita. Parafrasando Antoine de Saint-Exupéry, potremmo dire che i riti sono nella vita ciò che le cose sono nello spazio.

Per Hannah Arendt è la resistenza delle cose a offrire loro un’“indipendenza dagli uomini” (Vita activa. La condizione umana – Ed Bompiani Milano 2017). Le cose hanno “la funzione di stabilizzare la vita umana”. La loro oggettività sta nel fatto che “gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé”, cioè la loro identità, “riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”. Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza, della loro ripetizione. Rendono, dunque, la vita resistente. L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di più, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile. E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. Lo smartphone non è una cosa che piacerebbe a Hannah Arendt, gli manca proprio quella medesimezza in grado di stabilizzare la vita e non è neanche particolarmente resistente. Si differenzia da cose come un tavolo, che mi affrontano col loro sé. I suoi contenuti mediali che richiamano di continuo la nostra attenzione sono l’esatto contrario del sé. Il suo cambiare rapidamente non consente alcun indugio. L’inquietudine propria di questo tipo di apparecchio lo rende una non-cosa. Inoltre, il suo utilizzo diventa costrittivo, invece da una cosa non dovrebbe scaturire alcuna costrizione. Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose. Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensì usate
– così possono anche invecchiare. In preda alla coazione a produrre ci rapportiamo alle cose e al mondo non come utilizzatori, bensì come consumatori. Di ritorno, le cose e il mondo consumano noi. Il consumo senza scrupoli ci attornia insieme alla sparizione, che destabilizza la vita. Le pratiche rituali fanno sì che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose.

Oggi non consumiamo solo le cose, bensì anche le emozioni di cui si fanno portatrici. Le cose non si possono consumare senza fine, le emozioni sì. Così esse aprono un nuovo, infinito campo di consumo. L’emotivizzazione della merce e l’estetizzazione che l’accompagna sono sottoposte alla coazione a produrre; devono aumentare il consumo e la produzione. Così facendo, l’estetico si fa colonizzare dall’economico. Le emozioni sono più fuggevoli delle cose, per cui non stabilizzano la vita. Inoltre, nel consumare un’emozione non ci si rapporta alle cose, ma solo a se stessi. Si cerca un’autenticità emotiva. In tal modo il consumo dell’emozione rafforza l’autoreferenzialità narcisistica. Il rapporto con il mondo, che le cose dovrebbero garantire, si perde sempre più. Anche i valori fungono oggi da oggetto del consumo individuale, diventano a loro volta merce. Valori come la giustizia, l’umanità o la sostenibilità vengono sfruttati economicamente. “Cambiare il mondo bevendo tè”: ecco lo slogan di un’impresa di commercio equosolidale. Cambiare il mondo mediante il consumo – ovvero: la fine della rivoluzione. Di vegan esistono anche scarpe e vestiti, e chissà, forse arriveranno persino gli smartphone. Il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti. I valori morali vengono consumati quali tratto distintivo. Vengono registrati sull’ego-account, il che accresce l’autostima. Essi fanno aumentare un narcisistico rispetto di sé. Tramite i valori non si fa riferimento alla comunità, bensì al proprio ego. Con il simbolo, con la tessera hospitalis, gli ospiti sigillano il loro legame. La parola symbolon è inserita nel medesimo orizzonte di significato della relazione, della totalità e della salvezza. Secondo il mito che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, originariamente l’uomo era una creatura sferica con due volti e quattro gambe. Visto che era troppo esuberante, Zeus lo tagliò in due per indebolirlo.

Da allora l’uomo è un symbolon che si strugge per l’altra metà, per una totalità salvifica. Così, in greco “mettere insieme” si dice symballein. I riti sono, in questa accezione, anche una pratica simbolica, una pratica del symballein, in quanto riuniscono le persone e creano un legame, una totalità, una comunità. Oggi il simbolico inteso come medium della comunità scompare a vista d’occhio. La desimbolizzazione e la deritualizzazione si presuppongono a vicenda. L’antropologa sociale Mary Douglas constata con stupore:

Uno dei problemi piú gravi dei nostri giorni è la sfiducia nei simboli. […] se si trattasse soltanto della nostra frammentazione in piccoli gruppi, ciascuno legato alle sue forme simboliche, la situazione sarebbe facile da capire. Ma esiste un fenomeno ben piú misterioso: un ampio ed esplicito rifiuto dei rituali in quanto tali. “Rituale” è diventato una brutta parola, equivalente a conformismo vuoto: assistiamo a una rivolta contro il formalismo, anzi, contro la forma. 

Parte seconda

 

Un posto dove andare

Estratto da “Pensieri quotidiani – 2003” di Omraam Mikhael Aivanhov – Edizioni Prosveta

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Potete trovare tutto nell’universo: il cielo, la terra e persino l’inferno. Sta a voi sapere dove volete andare e comportarvi di conseguenza.

Se inavvertitamente vi siete persi nell’inferno, affrettatevi a uscirne. Può accadere che siate invitati al bar a bere con amici, ma questo non significa che dobbiate restarvi a lungo. Passeggiate nella foresta e vi mettete a cogliere le fragole; va bene, ma pensate a rientrare, altrimenti arriverà la notte e non ritroverete più la strada….

Qualcuno si lamenta: “Ho pronunciato parole infelici che hanno provocato dei danni”. Non fa nulla, pronunci ora altre parole per riparare.  Così chi cade in una palude infestata da animaletti novici non deve accontentarsi di lanciare grida e recitare preghiere, ma si affretti ad uscirne!

Queste sono tutte immagini per mostrarvi che anche nelle peggiori situazioni non vi è nulla di definitivo e che bisogna soltanto pensare a cambiare posto o riparare.

 

 

 

 

 

 

Le tre perle della saggezza

Estratto da “Le tre domande” di Don Miguel Ruiz e Barbara Emrys –

Ed. Il punto d’incontro
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Molto tempo fa, durante una giornata di pioggia, un vecchio stava procedendo sul suo carro lungo una strada di campagna. Le buche e gli scrosci rendevano la guida difficoltosa.
Quando il carro finì in una buca particolarmente profonda, una ruota posteriore si ruppe. Il vecchio calmò il cavallo, saltò giù sulla strada fangosa e iniziò ad armeggiare con la ruota del carro. Presto si rese conto che la buca era troppo profonda e la ruota troppo pesante per riuscire ad alzarla.

Era lì, fradicio e infreddolito, quando sentì i passi di qualcuno che si avvicinava.
Un ragazzo di campagna stava tornando a casa per la cena e vide il carro malridotto del vecchio assediato dall’acqua che scorreva come un fiume. Trovò un palo di recinzione che era caduto e con quello entrò nel fango fino alle ginocchia per puntellare il carro. Dopo averlo sollevato si mise a riparare la ruota.
Mentre lavorava, parlò al vecchio delle sue aspirazioni per il futuro. Sapeva molto poco del mondo ma voleva imparare. Voleva scoprire chi era e trovare le risposte ai grandi misteri della vita. Presto sarebbe diventato un uomo e voleva saperne di più sull’amore. Disse che spesso sognava a occhi aperti le cose meravigliose che dovevano ancora accadere.
“Quasi tutti i giorni non so se sto sognando o se sono sveglio!”. Il ragazzo non smetteva di parlare e il vecchio ascoltava in silenzio.

Dopo un’ora finì il lavoro di riparazione. La ruota era tornata al suo posto e il carro era di nuovo sulla strada. Il vecchio, pieno di gratitudine, infilò una mano in tasca alla ricerca di qualche moneta. Non trovando niente da offrire al ragazzo per il suo aiuto, gli chiese se in cambio poteva accettare tre perle di saggezza, garantendo che gli avrebbero procurato più ricchezza di qualsiasi moneta. Il ragazzo sorrise mentre il sole faceva capolino tra le nuvole che correvano gonfie. Sapeva di non poter rifiutare quella manifestazione di gratitudine, qualunque fosse l’offerta che gli veniva fatta. E dopotutto aveva molto da imparare.
“Sì”, disse educatamente. “Sarei davvero onorato se lei volesse condividere la sua saggezza con me, signore”.
Allora il vecchio si piegò verso il ragazzo e iniziò a parlargli.
“Per trovare la tua strada nel mondo, hai bisogno soltanto di rispondere a tre domande”, gli spiegò. “Prima devi chiederti: ‘Chi sono io?’ Saprai chi sei quando vedrai chi non sei.
“Poi devi chiederti: ‘Cos’è reale?’ Saprai cos’è reale quando accetterai ciò che non lo è.
“Infine”, concluse, “devi chiederti: ‘Cos’è l’amore?’. Saprai cos’è l’amore quando capirai cosa non lo è”.
Il vecchio si raddrizzò sfregando il cappotto per ripulirlo dalle macchie di fango. Il ragazzo si tolse rispettosamente il cappello e lo ringraziò. Vide il vecchio salire sul carro e incitare il cavallo. Il carro barcollò, poi inizio a sferragliare lungo la strada.
Tornando a casa, dove la cena lo stava aspettando, si voltò e intravide il carro svanire tra le ombre della sera.

Ispirazione

parte prima – “Se” Rudyard Kipling

Parte seconda

estratto da “La saggezza dei tempi” di Wayne W.Dyer – Ed. Bur RCS

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Se – Rudyard Kipling      Rivisitazione di W. W. Dyer

Se riuscirai a veder distrutta l’opera della tua vita
e senza dire una parola ricominciare ancora
o perdere per un solo colpo la tua ultima partita
e non avere un gesto o un sospiro per la tua angoscia;
se poi riuscirai ad amare senza farti accecare dalla passione,
ad essere forte senza perdere la tenerezza
e sentendoti odiato, a non nutrire avversione,
continuando a lottare per raggiungere la sicurezza;

Se riuscirai a sopportare di sapere che le tue parole
sono state travisate dai malvagi per aizzare gli stolti,
e se riuscirai a sopportare che la gente menta su di te,
mantenendoti sempre sincero, su te stesso, di fronte ai molti,
e se riuscirai a rimanere altero, pur nella popolarità,
e modesto anche quanto sarai consigliere del Re,
e se amerai tutti come fratelli,
senza concedere a nessuno un affetto esclusivo;

Se saprai meditare, osservare e conoscere
senza mai essere scettico o distruttore,
se saprai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni,
e pensare senza esaurire nel pensiero tutte le tue forze,
se riuscirai a essere determinato, ma mai collerico,
e coraggioso, ma mai imprudente,
e saggio, ma senza essere moralista e miope;

E se saprai affrontare il Trionfo e la Disfatta,
e accogliere entrambi questi mentitori con lo stesso animo,
e se riuscirai a mantenere il coraggio e la ragione
quanto tutti avranno perso la loro,
allora i Re, gli Dei, la Fortuna e la Vittoria, chineranno la testa davanti a te.
E, cosa che vale anche più dei Re e della Gloria,
sarai un Uomo, o figlio.

[…] ho scoperto una verità in molti dei consigli che Kipling offre a suo figlio in questa poesia, ma francamente sto ancora lavorando per applicare questo tipo di consigli alla mia vita quotidiana.
[…] Ci sono molti messaggi in questi trenta versi. Permettetemi di dirvi che cosa ispira in me questo consiglio poetico.
Mi ispira di essere abbastanza autonomo nello stabilire le mie decisioni per mantenere il mio equilibrio e la mia integrità, senza lasciarmi trascinare dalla follia che vedo intorno a me, e senza prestare ascolto a quel che gli altri possono pensare. “Sii te stesso”, è il consiglio […] E se io sarò in grado di essere me stesso, senza perciò giudicare gli altri intorno a me, mi sentirò rincuorato. […]
Mi ispira l’idea di utilizzare l’ipocrisia che trovo intorno a me per ricordare a me stesso che odio l’ipocrisia. Quando ero più giovane, ho utilizzato spesso l’ipocrisia degli altri come punto di partenza per la mia. Se le persone mentivano, mi capitava di decidere di riservare loro lo stesso trattamento, per quanto ciò fosse disgustoso nei confronti di me stesso. Ma mi fa sentire molto meglio il fatto che oggi non sopporto la menzogna a tal punto da non accettare di essere io stesso un mentitore.
Mi ispira il fatto di essere un buon perdente nella vita. Non sono sempre stato così, e anche oggi non sono sempre così, ma certo sono migliorato molto. Sì, mi piace l’azione e la competizione come sempre, ma ora posso ritirarmi in pace alla fine dei giochi, e so in cuor mio che il vero me non si interessa dei risultati della gara. Il fatto di partecipare significa che posso vincere e posso perdere, e che i risultati sono degli impostori che si sostituiscono al mio vero sé. Vorrei che i miei figli sapessero che non coincidono con le loro vittorie così come non si identificano con le loro sconfitte. […]
Mi sento ispirato quando riesco a evitare i giudizi basati sull’apparenza, sui risultati raggiunti, su quel che si ha acquistato, e mi limito guardare nelle persone il risvegliarsi di Dio. La tentazione di classificare la gente secondo quelle categorie, è a volte irrefrenabile […].
Mi sento ispirato quando vedo me stesso vivere per il mio cuore senza aver bisogno di provare a me stesso di avere un valore. […] Mi sento ispirato quando mi accorgo che non sono più così ostinato nel voler convincere gli altri che ho ragione, anche se so che quel che sto dicendo è vero.
[…] Tutte queste qualità che Rudyard Kipling ritrae brillantemente nella sua poesia “Se”, conducono a quello che, secondo me, significa veramente la sua conclusione. Se sarai in grado di fare tutte queste cose, ti sentirai ispirato, e allora “Sarà tua la terra e tutto quel che contiene e, cosa ancora più importante, sarai un uomo, figlio mio!
In questo modo Kipling dice a suo figlio che la maturità consiste nell’essere se stessi senza attendere il giudizio degli altri, Quando una persona è cresciuta in questo modo, potrà avere tutto ciò che riuscirà a desiderare.
Per mettere in pratica le parole di questa classica poesia nella vostra vita, oggi ho soltanto un suggerimento da darvi:
* Copiate questa poesia e leggetela a voi stessi e a coloro che volete aiutare ad acquisire una maturità emotiva e spirituale. Tutte le lezioni di questo mondo sono contenute in quei versi. Ovvero: tieni la testa a posto, confida in te stesso, sii onesto, sii un sognatore, non attaccarti alle cose, accetta il rischio, sii indipendente, sii umile, sii pietoso, impara a perdonare. C’è davvero tutto questo in questa poesia ormai classica. L’unica domanda che resta, ora, comincia con questo titolo di una sola parola: Se…