Se

Se – Rudyard Kipling* 1895

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Se saprai mantenere la calma quando tutti intorno a te
la perdono, e te ne fanno colpa;
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti dubitano di te,
ma tenendo conto anche dei loro dubbi:
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere calunniando,
O essendo odiato, non cedere all’odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo da saggio;

Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare dei pensieri il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Disfatta
E trattare allo stesso modo questi due impostori:
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per farne trappola per sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con logori arnesi.

Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare dal principio
E non dire una parola sulla tua perdita.
Se saprai rafforzare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo esausti,
E a tenere duro quando in te non c’è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: “Tenete duro!”

Se saprai parlare alle folle e mantenere la tua virtù,
O passeggiare con i re, senza perdere il buon senso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona conterà, ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!

*Rudyard Kipling (1865-1936) – Romanziere, poeta e scrittore di successo, nato in India da genitori inglesi. Tra le sue opere: “Il libro della giungla” e “Capitani coraggiosi”.

Giudizio e ascolto

Estratto da “Le parole sono finestre(oppure muri) di Marshall Rosenberg – Ed.Esserci

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Mi sento così condannata dalle tue parole,
mi sento giudicata e allontanata,
prima ancora di aver capito bene.
Era questo che intendevi dire?

Prima che io mi alzi in mia difesa,
prima che parli con dolore o paura,
prima che costruisca un muro di parole,
dimmi, ho davvero compreso bene?

Le parole sono finestre, oppure muri,
ci imprigionano o ci danno la libertà.
Quando parlo e quando ascolto,
possa la luce dell’amore splendere attraverso me.

Ci sono cose che ho bisogno di dire,
cose che per me significano tanto,
se le mie parole non servono a chiarirle,
mi aiuterai a liberarmi?

Se sembra che io ti abbia sminuito,
se ti è parso che non mi importasse,
prova ad ascoltare, oltre le mie parole,
i sentimenti che condividiamo.

Ruth Bebermeyer

Itaca

Estratto da: “Il bisogno di pensare” di Vito Mancuso – Ed. Garzanti

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( prima parte – Pensanti o non-pensanti)

(seconda parte)

Io appartengo a quegli esseri umani che hanno bisogno di pensare, e sottolineo bisogno, non necessità. Nel linguaggio ordinario i due termini sono sinonimi, indicano l’urgenza di procurarsi qualcosa che manca e che serve, o anche di sbarazzarsi di qualcosa che grava e procura disagio, come quando diciamo di avere “un bisognino”. Ma io qui li distinguo, intendendo la necessità come un’urgenza che nasce da fuori, da una realtà esterna al soggetto e che gli si impone, e che per questo è fredda, severa, meccanica; e intendendo il bisogno come un’urgenza che nasce da dentro e che lo rende strettamente imparentato con il desiderio, e che per questo è caldo, ardente, potenzialmente creativo. Riprendo, in altri termini, la differenza posta da Aristotele tra cose necessarie e cose buone, laddove le prime vengono amate per causa di altro in quanto servono alla vita (per esempio, il denaro), mentre le seconde vengono amate per se stesse, “anche qualora non ne derivi nulla di diverso” e per questo “devono essere dette buone in senso proprio” (per esempio, la foresta o il mare). E benché secondo i filologi l’assonanza sogno-bisogno non abbia nessun fondamento etimologico (perchè sogno viene dal latino, mentre bisogno dall’antico germanico), rimane tuttavia che rispetto alla necessità che esprime la voce della dura realtà il bisogno è più vicino al sogno e alla sua capacità di generare utopia.

In quanto essere umano dotato del bisogno di pensare perchè attratto dal sogno di una vita diversa e migliore, io ritengo essenziale affrontare la questione del perchè si vive, soprattutto nel senso finale cui l’avverbio perché rimanda: a mio avviso si tratta della condizione indispensabile per dar sì che il nostro passare su questa terra risulti un viaggio e non un disordinato vagabondaggio. Vi ripresento quindi la domanda: perché vivete? Quale scopo date al vostro essere qui? Cosa volete da voi stessi? Dove traete l’energia per camminare in equilibrio sulla fune della vita?

Io sono convinto che questa vita sia per tutti un’odissea, ma che un conto sia avere un’Itaca nel cuore e nella mente, un altro l’esserne privi. Si può vivere senza Itaca?  Ognuno risponda da sé, io vedo che alcuni vi riescono senza problemi e senza patemi, anzi, persino con un senso accresciuto di leggerezza e di libertà. Quanto a me, non vi riesco […] La questione non è né accademica né salottiera, ma privata, esistenziale. La pongo con la consapevolezza di trovarmi in un ambito dove non è possibile recitare, di fronte al compito di esistere al cospetto di se stessi, giorno dopo giorno, anno dopo anno […]

Qui intendo indagare il criterio in base a cui mi alzo la mattina, oriento le mie scelte, dico di sì e dico di no, accetto una proposta e ne rifiuto un’altra, coltivo un’amicizia, imposto le mie relazioni, scelgo o non scelgo di fare o non fare qualcosa. Mi chiedo tutto ciò al cospetto della quotidianità in cui si scandisce la mia esistenza. Scoprire  cosa veramente voglio è essenziale per scoprire chi veramente sono. Il mio desiderio mi definisce. La mia Itaca detta la rotta.

Pensanti e non-pensanti

Estratto da: “Il bisogno di pensare” di Vito Mancuso – Ed. Garzanti

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Quanti  anni  avete?  Diciassette,  ventuno, cinquantacinque, ormai quasi sessanta, o forse sono già ottanta?  Qualunque età abbiate, io vi chiedo qual è il vostro punto di orientamento in questa vita che scorre, che viene da una bianca sorgente che non conosciamo  e  va  verso  un mare nero che conosciamo ancor meno.  Io, alla mia età, ancora mi chiedo  a  cosa  affidarmi per trovare  direzione  e  sostegno,  perché  di  un sostegno ho bisogno, questo è sicuro, questo lo sento, a volte con un dolore sottile e penetrante che mi pervade tutto il corpo, specialmente la sera.  Anche  voi  l’avvertite  talora,  o  non  sapete neppure di cosa parlo? Mi capite, o pensate che io sia solo un disadattato cui concedere un sorriso di circostanza?

A prescindere però dall’impressione che vi faccio, la mia domanda rimane. Dopo aver scoperto  il principio della leva Archimede dichiarò: “Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo”. Ebbene io vi chiedo: quale punto di appoggio avete per sollevare il vostro mondo dalle bassure dell’esistenza quotidiana? Oppure non ve ne curate? Oppure preferite stare bassi, rasoterra, a volte persino strisciare, perchè si fa meno fatica e non c’è pericolo di cadere?

Voi mi direte di farmi i fatti miei. Io però insisto e pongo la questione anche dal punto di vista dinamico chiedendo: lo sai in base a cosa ti muovi? Lo sai verso quale scopo dirigi la tua energia vitale?  Sei consapevole del metodo con cui affronti la vita e del fine che vi persegui?  Lo sai qual è il criterio del tuo procedere in equilibrio sulla fune della vita?  Alcuni considerano questi discorsi filosofemi irritanti, altri si sentono sprofondare nella noia al solo sentirli. Conosco l’obiezione: “Vivere! A me basta vivere, seguire il mio istinto e quello che mi va! Che me ne faccio di tutte queste teorie?”. Molti la pensano così, l’aveva già osservato Goethe quando scrisse a proposito della vita: “Tutti la vivono, non molti la conoscono”. Schopenhauer al suo solito era ancora più tagliente: “Se si considera attentamente quanto grande e palese sia per noi il problema dell’esistenza, di questa esistenza ambigua, tormentata, fuggevole e simile al sogno[…] e se poi si osserva come tutti gli uomini – tranne alcuni pochi e rari – sembrano non rendersi conto di questo problema, anzi non esserne affatto cosapevoli, bensì preoccuparsi  di tutto meno che di esso […] se si riflette bene a ciò, io dico, si può cominciare a credere che l’uomo si chiami essere pensante soltanto in un senso assai lato della parola”.

Non c’è nulla di strano quindi, anzi nulla di originale, nel fastidio provato da molti di fronte al tentativo di indagare il senso del nostro essere qui: per chissà quante migliaia di anni siamo stati raccoglitori e cacciatori, e anche adesso lo siamo, raccogliamo e cacciamo denaro-piaceri-emozioni nutrendo in questo modo il nostro istinto vitale. Così è del tutto secondo copione che per alcuni le filosofie e le spiritualità siano solo una seccatura, e che esista unicamente la voglia di vivere e basta, senza tanti pensieri.

Per qualcuno però non è così. Sarebbe interessante chiedersi come mai. Come spiegare questa distinzione tra chi si pone le domande esistenziali e chi no? Io non so cosa rispondere […] Mi vengono in mente le parole di Norberto Bobbio, quando, cogliendo a sua volta questa linea di divisione che attraversa il genere umano, affermò che secondo lui “la differenza rilevante non passa tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti”.

( SECONDA PARTE – ITACA )

Passione e pedagogia della paura

Estratto da “Passione” di Paolo Crepet – Mondadori

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Basta entrare in un supermercato e osservare. Gli scaffali più frequentati sono quelli che “non” contengono qualcosa. Siamo arrivati alla ricerca spasmodica del “senza”, all’epoca della sottrazione rassicurante.
Senza glutine, senza lattosio, senza olio di palma, senza zuccheri aggiunti, senza grassi, senza carbonato di potassio, senza uova, senza glifosfato, senza purine, senza lievito, senza amidi … Genitori, single, anziani, sportivi, evergreen: tutti alla caccia di ciò che non ci deve essere, tutti consolati dalla mancanza e non dalla presenza.
Le allergie si diffondono e, con esse, i timori di qualsiasi epidemia, vera o presunta: l’importante è avere paura. Come se le nostre identità fossero costruite su ciò che temiamo e non più su ciò che amiamo.
I bambini crescono ossessionati dalle paure di genitori e insegnanti, incapaci di difendersi se non aggrappandosi ad adulti psicolabili. Le città si riempiono di parafarmacie, veri e propri mercati aperti spesso 24 ore su 24. Per rincuorare le nostre angosce, distributori di rassicurazioni chimiche o di rimedi “naturali” per ansie, insicurezze, paranoie.
Ogni strillo su qualche attentato alla nostra salute trova immediatamente alloggio nell’infinito repertorio di prodotti placebo pubblicizzati da innumerevoli chat digitali, sequele di messaggini che circolano di giorno e di notte con lo scopo di seminare panico, annientare certezze, vanificare avanzamenti scientifici. La rete moltiplica all’infinito la paura del complotto di qualche multinazionale che vuole imporci l’acquisto di un vaccino con il rischio di far diventare autistici i nostri bambini. Bestemmie scientifiche che hanno però persuaso milioni di cittadini e che ora insidiano pure le decisioni ministeriali. La paranoia funziona perché coltiva un’identità collettiva fondata su pericoli immaginari.
I bambini sono ovviamente le prime, e più facili, vittime di un mondo che trova la propria forza nell’idea del complotto, che inocula il timore che qualsiasi cosa facciamo, mangiamo, beviamo, assumiamo possa esserci dannoso o fatale.
Così si costruisce un mercato parallelo e fiorentissimo, quello della paranoia. Prodotti costosi proprio perché non contengono questo o quell’ingrediente, o perché illudono di provenire da chissà quale “fabbrica sana e naturale”. La parola magica, e assolutamente imbarazzante, è free, libero. Forse è solo una coincidenza, ma in questo temine inglese convivono, più strettamente che nel corrispettivo italiano, due accezioni: ”libero da…” e “libero di…”. Il largo consenso che questo nuovo mercato ha trovato è in parte legato proprio all’idea, illusoria, di essere liberi, non contaminati. […]
È emblematico che, oggi, ci si possa sentire liberi solo “senza” qualcosa. I nostri figli crescono con un’idea bizzarra della libertà: quella che non ti fa scegliere, ma seguire i dettami delle paure. E i sentimenti – ciò che chiamiamo empatia, ovvero fiducia – che fine faranno in un mondo in cui non ci si può più fidare di nessuno?
Recentemente, un’appassionata assessora della giunta comunale di Napoli ha emesso una direttiva che proibisce ai negozianti di esporre in vetrina animali morti, con tanto di multa fino a 500 euro per i non ossequenti. Proibito esporre un agnello o un pollo o un coniglio morti, al massimo possono essere esposte fettine della loro carne. Il motivo addotto per tale direttiva è che i bambini si impressionano a vedere animali morti. Anzi, occorre che la morte tout court sia rimossa dalla loro visione perché quelle bestie fanno parte del loro immaginario, delle loro favole e non devono rientrare in nessuna realtà truculenta.
L’editto, in realtà, convalida un comportamento già presente in molte famiglie: quando il nonno si ammala e muore, quel dolore, quella trasformazione del corpo, quel decadimento fatale, quel lutto devono essere tassativamente esclusi dalla vita di un /a bambino/a che deve vivere in una favola, dove tutto esiste in quanto inventato. Anche il funerale viene bandito dalla sua realtà e immaginazione. Per questi adulti il luogo più adatto dove un /a bambino/a dovrebbe crescere. Una teca, protetto/a da tutto in quanto tutto è potenzialmente contaminante: lo spirito quanto il corpo, il pensiero quanto la carne. L’ideale per molti genitori è far crescere i propri figli in una sorta di reparto di rianimazione, dove anche l’ultimo acaro è stato debellato. Prevale un’idea di assoluto “candore educativo”.
Sono gli stessi adulti a pensare corretto per un bambino passare ore alla playstation con giochi violenti, ma pur sempre virtuali. È la realtà il nemico che vogliono combattere.
Non si tratta soltanto di ipocrisia, ma di una paura introiettata da parte di chi educa e proiettata sui più piccoli. Ci si convince che un bambino debba vivere solo esperienze virtuali in quanto l’adulto di riferimento non è in grado di spiegare cosa significa dolore, pena, passione: una vita anestetizzata è meno faticosa e problematica da spiegare rispetto a quella reale. E la passione diventa così un concetto edulcorato, insapore, idealizzato e irreale.
L’assessora sarà stata mossa a pietà, ma ha dimenticato che un bambino deve vivere nella realtà e che un adulto deve essere capace di tradurle in termini comprensibili, non ingannevoli o censori. […]
Perché ci dobbiamo arrendere a vivere un’esistenza che somiglia a una fiction?
Che cosa ci fa paura? Possibile che il progresso e il benessere abbiano infiacchito l’uomo invece di renderlo più forte e determinato? E se riuscissimo a eliminare tutto ciò che ci fa paura, di che cosa vivremmo? Se uccidiamo tutti i lupi mannari e ne nascondiamo i corpi, vivremo davvero più sani e felici?
E se, infine, dovessimo scoprire che quelle paure altro non sono e non possono essere che grandi metafore della vita, compresi i lati oscuri che non vorremmo vedere? Le favole di Esopo, Andersen, dei fratelli Grimm o di La Fontaine avevano proprio questo di prodigioso: contenevano l’essenza della vita, al lordo del dolore, del terrore, delle nostre infinite debolezze e paure umane, e costruivano anticorpi contro le umane fragilità.
Insomma, la paura come antidoto, protezione. Un bambino che non la conosce crescerà fragile, alla mercé del primo evento luttuoso della sua vita. Ma soprattutto la paura, come dolore, è esperienza fondamentale per capire il senso della nostra esistenza: i nostri limiti, il cambiamento del corpo e l’invecchiamento. Un uomo può dirsi davvero forte soltanto se ha riconosciuto la propria fragilità e dunque la passione che se ne può ricavare.
Invece, molti manifestano il proprio disagio nei confronti di tutto ciò che vivono come difetto. L’imperativo per una certa cultura falsamente edonistica è la perfezione: ossessione curata e protetta dai nuovi dettami della moda. […]
In una società sempre più anziana, molti rincorrono il mito dell’eterna giovinezza che vogliono mostrare nel corpo, nel modo di atteggiarsi.
Abbiamo paura di tutto, compresa la nostra esistenza, che vorremmo da un lato prolungare all’infinito, dall’altro preservare da ogni aspetto doloroso: dalla morte di un parente o un amico al parto che deve essere solo cesareo, fino all’anestetizzazione della vita compiuta e proposta ai nostri bambini. I piccoli non devono cadere più dalla bicicletta né correre il rischio di ferirsi giocando.
La naturalezza della vita abolita a favore di un’esistenza sterilizzata e blindata, dove la parola “passione” è depotenziata a sentimento superficiale, a un inciampo troppo realistico. Invece la passione unisce e completa, la paura isola e amputa il tessuto sociale.