1 gennaio 2023

Estratto da “Pensieri Quotidiani” 2005 di Omraam Mikhaël Aïvanhov – Edizioni Prosveta

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Il più delle volte, per gli uomini, il futuro è motivo di preoccupazione: essi si chiedono continuamente se si troveranno a corto di denaro, se avranno di che mangiare, se avranno un’abitazione e così via. Sono talmente presi da queste preoccupazioni che dimenticano questioni molto più importanti, commettono errori ai quali dovrebbero rimediare ma che non correggono e, siccome tutte queste situazioni si accumulano, alla fine arriva il momento in cui saranno sommersi, schiacciati.

Per evitare di cadere in un simile ingranaggio, è necessario meditare sulle parole di Gesù: “Non affannatevi dunque per il vostro domani, perchè il domani avrà già le sue inquietudini”

Se ogni giorno controllerete che il vostro comportamento sia sempre impeccabile, il domani sarà interamente libero e sarete disponibili per intraprendere ciò che avrete deciso, rimanendo però ancora vigili per non trascinarvi dietro nulla. In questo modo, ogni nuovo giorno vi troverà liberi, ben disposti, pronti a lavorare, a studiare, ad essere contenti, e tutta la vita assumerà un colore straordinario di felicità e di benedizione.

Prestando attenzione a regolare ogni cosa oggi, implicitamente pensate al domani.

 

 

 

 

La nostra modalità perduta di preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

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Segue da “Dolore, benedizione, bellezza e preghiera”.

Viviamo in un mondo fatto di esperienze che mettono alla prova la nostra sensibilità e ci spingono ai limiti di ciò che è considerato accettabile da esseri razionali e capaci di amore quali noi siamo. Come provare emozioni collegate a un senso di pace e guarigione, mentre siamo testimoni di guerre e genocidi che avvengono al di là dei nostri confini e di fronte all’odio basato sulla diversità che si manifesta nelle nostre stesse comunità? È chiaro che dobbiamo trovare un modo per interrompere il circolo vizioso di dolore-sofferenza-rabbia-odio, se intendiamo trascendere le situazioni in cui ci troviamo.

Col linguaggio del loro tempo, le antiche tradizioni ci hanno tramandato istruzioni precise su come fare proprio questo! Quelle parole ci ricordano che “la vita” non è niente di più e niente di meno che uno specchio della nostra evoluzione interiore. La chiave per sperimentare la vita in quanto bellezza o dolore sta soltanto nella nostra capacità di impersonare queste qualità in ogni momento della giornata. Oggi un corpus crescente di prove scientifiche sta rafforzando sia l’attendibilità di questa forma di saggezza, sia l’importanza del nostro ruolo personale nell’alimentare la sofferenza o la guarigione del mondo.

Alcuni esperimenti svolti sul finire del XX secolo hanno confermato che siamo immersi in un campo di energia che collega tutti noi agli eventi che avvengono nel mondo. La ricerca ha dimostrato che grazie a questo campo energetico, al quale sono stati attribuiti i nomi più diversi, da Ologramma quantico a Mente di Dio, le convizioni e le preghiere che trovano posto dentro di noi sono trasmesse al mondo fuori di noi. Sia la scienza che le antiche tradizioni ci indicano lo stesso concetto: dobbiamo incarnare nella vita quotidiana le condizioni che desideriamo sperimentare nel mondo. Nascoste nelle più isolate e remote località che restano ancora sulla Terra, si trovano le istruzioni per praticare una modalità perduta di preghiera che ci aiuta proprio a fare questo.

Nella primavera del 1998 ho avuto l’onore di facilitare un pellegrinaggio durato ventidue giorni nei monasteri del Tibet centrale, ricercando le prove di una forma di preghiera antica e dimenticata – un linguaggio capace di parlare al campo che unisce tutte le cose. I monaci e le monache che vivono in quei luoghi hanno condiviso con noi le istruzioni riguardanti un modo di pregare che è andato largamente perduto in Occidente, a causa dei tagli imposti alla Bibbia dalla Chiesa paleocristiana. Conservata per secoli nei testi e nelle tradizioni dei popoli stanziati sul tetto del mondo, questa modalità “perduta” di preghiera non si basa nè sulle parole nè sull’esteriorizzazione. È fondata unicamente sulle emozioni.

In particolare, ci invita a evocare in noi stessi la sensazione che la nostra preghiera sia già stata esaudita, anzichè quella di sentirci inermi e bisognosi di aiuto da parte di una fonte superiore. In anni recenti, le ricerche hanno dimostrato che questa specifica qualità di sentimento riesce effettivamente a “parlare” con il campo che collega l’umanità con il mondo. Attraverso preghiere costituite da emozioni, possiamo riappropriarci del potere di contribuire alla guarigione della nostra vita e dei rapporti, oltre che quella del corpo fisico e del mondo.

Fare come gli Angeli…

La chiave di utilizzo di questo modo di pregare risiede nel riconosere il potere nascosto della bellezza, della benedizione, della saggezza e del dolore. Ognuno di questi stati gioca un ruolo imprenscindibile nell’arena più vasta che ci permette di sentire, imparare, lasciar andare e trascendere le nostre più profonde ferite. Le parole di un anonimo scriba che annotò gli insegnamenti di Gesù quasi duemila anni fa ci ricodano che sia il potere di cambiare il mondo, sia gli ostacoli che si frappongono fra noi e quella facoltà, risiedono entrambi dentro di noi. Gesù affermo semplicemente che “la cosa più difficile da fare [per gli esseri umani] è di pensare i pensieri degli angeli… e di fare come gli angeli”.

La preghiera rappresenta il linguaggio di Dio e degli angeli. È anche il linguaggio dato all’umanità per guarire le sofferenze della vita mediante il ricorso alla saggezza, alla bellezza e alla grazia. Oggi, apprendere il potere della preghiera su internet o su un’antica pergamena del primo secolo non fa differenza. Il messaggio è lo stesso: riuscire ad accettare la nostra capacità di usare quel linguaggio universale può rivelarsi la sfida maggiore della nostra vita. Allo stesso tempo, però, rappresenta anche la nostra maggiore fonte di forza. Quando non ci resterà più alcun dubbio sul fatto che sappiamo già parlare il linguaggio fatto di sentimenti di cui è costituita la preghiera, risveglieremo una parte di noi che nessuno ci potrà mai sottrarre, rubare o portare via. Questo è il segreto della scienza perduta della preghiera.

Gregg Braden – Taos, Novo Messico – 2006

 

 

 

Dolore, benedizione, bellezza e preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

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Racchiusa nel sapere di coloro che ci hanno preceduti, ritroviamo l’antica saggezza capace di ridare forza alle nostre preghiere di pace e guarigione. Dagli antichi scritti gnostici ed esseni alle tradizioni dei nativi di tutte le Americhe, il dolore, la benedizione e la bellezza sono concordemente riconosciuti come chiavi di sopravvivenza rispetto alle maggiori prove cui è sottoposta l’umanità. La preghiera è il linguaggio che ci permette di applicare le nostre lezioni di vita alle situazioni che viviamo.

Da questa prospettiva “saggezza” e “dolore” sono i due estremi della stessa esperienza, l’inizio e il completamento dello stesso ciclo. Il dolore si pone come sentimento iniziale, risposta istitntiva a una perdita, a un dispiacere o a notizie dei media che turbano la nostra sensibilità. La saggezza rappresenta l’espressione del dolore dopo la sua guarigione. Noi trasformiamo il dolore in saggezza, dando un nuovo significato alle esperienze dolorose. Benedizione, bellezza e preghiera sono gli strumenti di cambiamento di cui disponiamo.

Il reverendo Samuel Shoemaker, utopista cristiano del XX secolo, ha destritto il potere di trasformazione della preghiera con una semplice e poetica frase, forse ingannevolmente semplice: “La preghiera può non cambiare le cose per voi, – afferma – ma  sicuramente  cambia voi, nel modo in cui affrontate le cose”. Sebbene possa essere impossibile risalire nel tempo per eliminare la causa della nostra sofferenza, abbiamo in ogni caso il potere di assegnare un diverso significato alla perdita di una persona amata, allo sconvolgimento derivante dalla rottura di una promessa o ai dispiaceri della vita. Nel fare ciò, spalanchiamo le porte perfino alla guarigione dei nostri ricordi più dolorosi.

Senza aver compreso la relazione esistente fra la saggezza e le nostre ferite, la sopportazione del dolore potrebbe apparire priva di significato – perfino crudele – e prolungarsi, lasciando perennemente aperto quel circolo vizioso. Come possiamo dunque rimuovere noi stessi dal dolore abbastanza a lungo da poter discernere la saggezza contenuta nelle nostre esperienze di vita? Mentre lottiamo contro una perdita, una violazione di fiducia o un tradimento che ci sembravano impensabili anche solo poche ore o minuti prima, come possiamo dichiarare tregua alle nostre emozioni per il tempo necessario a sviluppare un diverso modo di sentire? Questo è il momento in cui fa la sua comparsa il potere della benedizione.

Benedire significa lasciare andare

“Ti benedico” è l’antico segreto che sospende l’esperienza del dolore quanto basta, per rimpiazzarla con un altro sentimento. Quando benediciamo le persone o le cose che ci hanno feriti, interrompiamo momentaneamente il ciclo del dolore. Non fa alcuna differenza che la sospensione duri un nanosecondo o una giornata intera. Qualunque ne sia la durata, l’atto di benedire ci spalanca una porta per cominicare a star meglio e voltare pagina. La chiave di tutto sta nel sollevarsi dal dolore per il tempo necessario a riempire il cuore e la mente con qualcos’altro. Quel qualcosa è il potere della “bellezza”.

La bellezza trasforma

Le tradizioni più sacre e antiche ci ricordano che la bellezza permea tutte le cose, a prescindere dal modo in cui le interpretiamo nella vita quotidiana. La bellezza è già creata ed è sempre presente. Per soddisfare il nostro mutevole concetto di equilibrio e di armonia possiamo modificare ciò che ci circonda, instaurare nuovi rapporti o trasferirci in altri luoghi, ma i tasselli che vanno a costituire quella nuova bellezza sono già al loro posto.

Al di là dell’apprezzamento rivolto a cose che sono semplicemente gradevoli allo sguardo, le antiche tradizioni di saggezza decrivono la bellezza come un’esperienza capace di influenzare anche il cuore, la mente e l’animo umani. Grazie alla nostra capacità di percepire la bellezza perfino nei momenti “più brutti” della vita, possiamo elevarci al di sopra del dolore per il tempo sufficiente a dargli un diverso significato. In tal modo la bellezza diventa un dispositivo capace di proiettarci in una nuova prospettiva. La chiave, tuttavia, sta nel fatto che la bellezza sembra essere dormiente, fino a che noi non concentriamo su di essa la nostra attenzione. La bellezza si risveglia soltanto quando è invitata nell’esistenza umana.

Segue….

Il sé illusorio

Estratto da “Un nuovo mondo” di Eckhart Tolle – Ed. Oscar Mondadori

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La parola “io” rappresenta, a seconda di come viene usata, il più grande errore o la verità più profonda. Nell’uso convenzionale, essa non solo è una delle parole adoperate più spesso nel linguaggio (insieme alle altre a essa collegate: “me”, “mio” e “me stesso”), ma anche una delle più fuorvianti. Nell’uso comune “io” rappresenta l’errore essenziale, una errata percezione di chi siete, un senso illusorio di identità. Questo è l’ego. Questo senso illusorio del sé è ciò a cui Albert Einstein, che aveva profonde intuizioni non solo sulla realtà del tempo e dello spazio ma anche sulla natura umana, si riferiva quando parlava di “un’illusione ottica della coscienza”.

Quel sé illusorio diventa la base per ogni altro modo di intendere – o meglio di fraintendere la realtà – con tutti i processi di pensiero, interazioni e relazioni.  La vostra realtà diventa un riflesso dell’illusione originaria.

La buona notizia è: se potete riconoscere l’illusione come tale, essa si dissolve. Il riconoscimento dell’illusione è anche la sua fine. La sua sopravvivenza è legata al fatto che la confondete con la realtà. Quando vedete quello che non siete, la realtà di chi siete emerge spontaneamente. Questo è ciò che succede mentre leggete lentamente e con attenzione questo capitolo e il successivo, che trattano dei meccanismi di quel falso sé chiamato ego. E allora qual è la natura di questo sé illusorio?

Quello a cui vi riferite quando dite “io” non è quello che voi siete. Con un mostruoso atto riduttivo, l’infinita profondità di quello che siete viene confusa con un suono prodotto dalle corde vocali, o con il pensiero dell'”io” nella vostra mente e con tutto quello con cui l'”io” si è identificato. Allora a cosa si riferisce quello che comunemente viene chiamato “io” e i termini a esso collegati “me” e “mio”?

Quando un bambino piccolo impara che quella sequenza di suoni prodotta dalle corde vocali dei genitori è il suo nome, allora comincia a far corrispondere una parola, che nella mente diventa un pensiero, a ciò che lui o lei è. In questo stadio alcuni bambini si riferiscono a se stessi in terza persona. “Giovanni ha fame”. Subito dopo imparano la parola magica “io” e la fanno corrispondere al proprio nome che hanno già fatto equivalere a chi sono. Poi vengono altri pensieri e si fondano all’originario pensiero dell'”io”. Il passo successivo sono i pensieri “me” e “mio” che in un modo o nell’altro indicano cose che sono parte dell'”io”. Questa è l’identificazione con gli oggetti, che significa sì attribuire un senso alle cose, ma sopratutto ai pensieri che rappresentano queste cose. Da questa identificazione nasce così un senso di identità. Quando il “mio” giocattolo si rompe o viene portato via nasce una grande sofferenza. Non perchè il giocattolo abbia un valore in se stesso – presto il bambino perderà ogni tipo di interesse ed esso sarà rimpiazzato da altri giocattoli, altri oggetti – ma a causa del pensiero “mio”. Il giocattolo diventa parte dello sviluppo del senso del sé o dell'”io”.

Così, man mano che il bambino cresce, l'”io pensiero originario” attrae a sé altri pensieri: comincia a identificarsi con un genere, con le cose che possiede, con il corpo percepito dai sensi, con la nazionalità, la razza, la religione, la professione. Si identifica anche con i ruoli – madre, padre, marito, moglie e così via – conoscenze o opinioni accumulate, simpatie e antipatie, e anche cose che sono successe a “me”, il cui ricordo sono pensieri che definiscono ancora di più il mio senso del sé, come “me e la mia storia”: Questi sono solo alcuni degli elementi da cui la gente ricava il proprio senso di identità. Alla fine non sono altro che pensieri tenuti insieme in maniera precaria dalla caratteristica di essere investiti da un senso del sé. A questa costruizione mentale vi riferite quando dite “io”. A essere precisi, spesso quando dite o pensate “io” non siete voi che parlate, ma è qualche aspetto di quella costruzione mentale, il “sé egoico”.

Una volta risvegliati, invece, userete ancora la parola “io”, ma verrà da uno spazio interiore più profondo.

La maggior parte delle persona sono totalmente identificate con un incessante flusso mentale di pensieri incontrollati, in gran parte ripetitivi e senza senso. Non esiste un “io” separato dai propri processi mentali e dalle emozioni che lo accompagnano. Questo è il senso di essere spiritualmente inconsapevoli. Quando si spiega a queste persone che nella loro testa c’è una voce che non smette mai di parlare, vi risponderanno: “Che voce?”, oppure negheranno astiosamente, e a parlare è proprio quella voce, è colui che pensa, è la mente non osservata. Si potrebbe quasi considerarla come un’entità che si è impossessata di loro.

Alcune persone non dimenticano mai la prima volta che si sono disidentificate dai loro pensieri, sperimentando così uno spostamento di identità dall’essere il contenuto della loro mente all’essere la consapevolezza che c’è dietro. Per altre si verifica in un modo tanto sottile che se ne accorgono appena, o avvertono soltanto un afflusso di gioia o di pace interiore, senza saperne il motivo.

 

Cos’è una teoria?

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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Parte prima

Che cos’è una teoria? Il termine deriva dal greco antico e vuol dire «visione», ha la stessa radice di teatro e lo stesso significato di idea, che a sua volta letteralmente significa «visione». In particolare teoria significa «visione d’insieme»: vedo un dato, per esempio un essere umano; poi ne vedo un altro, per esempio un cranio di centomila anni fa; poi un altro ancora, per esempio lo scheletro di un ominide di un milione di anni fa; li collego cercando una spiegazione unitaria e ottengo una teoria, in questo caso la teoria dell’evoluzione. Dove nasce la teoria? Non nel laboratorio, ma nella mente. Ebbene, qual è la teoria nata nella mia mente che intendo presentare in queste pagine sottoponendola alla verifica sperimentale?

La mia teoria
Espongo la mia teoria in un mondo come quello meglio della rabbia, la correttezza meglio della corruzione. Sembrano ovvietà e forse in teoria lo sono, però nella pratica quotidiana, dove spesso imperversano malvagità, disonestà, menzogna, rabbia, corruzione, non lo sono per nulla. Ma in che senso dico «meglio»? In base a un criterio fisico: la vita. Più precisamente, il mio criterio è la vita umana nella completezza delle sue dimensioni che riguardano il corpo, la psiche e lo spirito, intendendo con spirito la facoltà che ci permette talora di essere liberi (cioè consapevoli, creativi, responsabili). La virtù è quanto ci consente di praticare l’igiene della nostra interiorità e così di mantenerla in salute, evitando che l’accumulo della sporcizia produca infezioni interiori paragonabili alle carie che perforano lo smalto dei denti, o peggio alle cellule impazzite dei tumori. La virtù è il più efficace sistema immunitario contro i numerosi agenti patogeni che minacciano la salute della nostra interiorità. È quella preziosa energia interiore difficilmente denominabile ma che fa della nostra vita un’esistenza umana, uno stare al mondo umanamente degno. La mia profonda convinzione è che, per far fiorire la nostra vita a tutti i suoi livelli, la strada più efficace sia la virtù, da intendersi secondo le molteplici declinazioni su cui mi soffermerò in queste pagine. È fondata questa teoria? È sensato parlare di un’etica per vivere bene? Di un’etica per non ammalarsi o per guarire? Esiste veramente un potere igienico e terapeutico della virtù? E se sì, come si esercita in concreto? Rispondere a queste domande costituisce l’esperimento che intendo condurre.

Un nugolo di domande
Sono consapevole delle perplessità che la mia teoria può suscitare a causa del fatto che il concetto di virtù, e più ancora quello di bene, sono ai nostri giorni oggetto di innumerevoli controversie. A dire il vero già molti secoli fa Platone notava che sul bene le idee erano alquanto confuse: «Nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà». Noi oggi però non solo vediamo a stento l’Idea del Bene, ma corriamo il rischio di non vederla per nulla. Per questo ognuno di noi, appena sente parlare di bene e di virtù, non può evitare il sorgere di una serie di domande che lo trasportano in uno scivoloso labirinto concettuale. Le prime riguardano il bene e la virtù dal punto di vista oggettivo:
Esiste il bene in sé? E se sì, cos’è? Oppure dicendo bene ci si riferisce a una dimensione inevitabilmente soggettiva e come tale relativa? E che cos’è, di contro, il male? Esiste il male in sé? Oppure il cosiddetto male dipende ogni volta dalla condizione del soggetto e dalle circostanze, così da risultare anch’esso inevitabilmente relativo? Si può, in altri termini, parlare di «bene assoluto» e di «male assoluto», o tali espressioni sono solo esagerazioni retoriche?
Esiste un bene che sia tale veramente per tutti e che la tradizione chiama «bene comune»? Oppure il bene di alcuni è sempre necessariamente il male di altri, come avviene in natura dove il leone raggiunge il suo bene e quello dei suoi piccoli divorando la gazzella e i suoi piccoli? Come stanno le cose tra gli esseri umani? Anche nel mondo umano il bene di alcuni è necessariamente il male di altri, oppure è possibile almeno in parte superare la legge mors tua vita mea e instaurare uno stato di cooperazione sociale? *
Perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male? Il male talora non può a sua volta produrre bene? E il bene, troppo bene, non finisce a volte per produrre del male?
Che rapporto c’è tra bene e male, e quindi tra virtù e vizi? Si tratta di un rapporto dualistico, che per il darsi del bene e della virtù esclude la presenza del male e del vizio? Oppure si tratta di un rapporto complementare, che per ildarsi del bene e della virtù include la presenza del male e del vizio?

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?