Natale

Di Ermanna

Durante l’anno il sole passa attraverso quattro punti celesti importanti: i solstizi – inverno, estate – e gli equinozi – primavera, autunno. Questi sono quattro momenti in cui le energie cosmiche e della natura si manifestano inondando tutto ciò che è presente sulla terra, e non ultimo l’uomo. Se in questo periodo dell’anno prestiamo attenzione e ci mettiamo in una condizione di armonia interiore, possiamo accogliere questa energia per il cambiamento.

Desidero condividere questa visione dell’arrivo della nascita di Gesù. Tratto dal libro di Omraam M. Aïvanhov: “Natale e Pasqua nella tradizione iniziatica” – Edizioni Prosveta.

“Ogni anno, il 25 dicembre, a mezzanotte, appare all’orizzonte la costellazione della Vergine, ed è questo il motivo per cui è detto che Gesù è nato dalla Vergine. All’opposto appaiono i Pesci, e nel medio cielo si può vedere la splendida costellazione di Orione, con al centro l’allineamento delle tre stelle che, secondo la tradizione popolare, rappresentano i tre Re Magi.
Ma lasciamo perdere il particolare di sapere se Gesù e veramente nato il 25 dicembre a mezzanotte. A noi interessa il fatto che, attorno a quella data, ha luogo nella natura la nascita del principio cristico, di quella luce e di quel calore che trasformano tutto. In quei giorni anche in Cielo si celebra il Natale: gli Angeli cantano e tutti i santi, tutti i grandi Saggi e gli Iniziati sono riuniti per pregare, per rendere gloria all’Eterno e per festeggiare la nascita del Cristo, che nasce veramente nell’Universo”.

Le abitudini sociali ormai acquisite da tempo ci prospettano questo periodo come momenti in cui ci si lascia andare a eccessi, dal cibo, alle ore piccole, e a una socialità molto spesso caotica. Tutte situazioni che non permettono di cogliere quanto invece la natura ci invia per ritemprare le nostre energie e ascoltare noi stessi.

Almeno per qualche momento ogni giorno, soprattutto in questo periodo, raccogliamoci in riflessione, meditazione o in pratiche che ci permettono di entrare nella profondità del nostro Essere per accogliere la nascita di qualcosa di nuovo, un’intuizione per la vita, l’espressione della nostra essenza, e non ultimo un moto d’amore verso il Tutto.
E per rinnovarci.

Lucciole per lanterne, ovvero le aspettative

di Ermanna

Ci sono persone che vivono nell’eterna attesa che accada un determinato fatto: un nuovo amore, un nuovo lavoro, un figlio, un’eredità, una nuova vita…
Possiamo individuare queste aspettative nelle speranze, nei sogni ad occhi aperti, nei desideri che magari crediamo impossibili, ma che manteniamo vivi. Queste sono le aspettative che sappiamo di avere.

Poi ci sono quelle che ci impediscono di vivere pienamente un’esperienza, una relazione, la vita. Sono quei momenti in cui sentiamo l’amaro in bocca perché le cose non sono andate “bene”. Noi però non le chiamiamo aspettative, perché non crediamo che lo siano.

Da dove hanno origine? I nostri pensieri sono creatori di emozioni. Questo genere di aspettative si collocano nella nostra parte meno razionale. Se fossero razionali, vedremmo subito la loro inconsistenza e non ne soffriremmo. Sono nascoste molto bene, sono infide e ci tendono trappole quando meno ce lo aspettiamo.
È possibile vederle? Certamente, ma non basta aprire gli occhi. Occorre ascoltare la loro voce sibilante che ci induce a pensare: “Sicuramente andrà così!” oppure “Vedrai, non può essere diversamente”. Pensieri che ci mettono in uno stato di attesa nella certezza che andrà in quel modo.

Ci sono due tipi di aspettative. Il primo è quello che ci dà e darà sempre una delusione. L’altro è il tipo di aspettativa che si avvera sempre.
La prima, che ci fa sperare in una soluzione perfetta per noi, si può sintetizzare nella frase “Andrà tutto bene”, e ci fa aspettare gli eventi. Quando non accade ciò che prevedevamo, cadiamo nello sconforto e nella disillusione, per poi riprendere il nostro buon umore perché… quando si chiude una porta si apre un portone. E questa è un’aspettativa alimentata dalla convinzione (illusione) che arriveranno giorni migliori, e si rimane passivi.
La seconda tipologia, quella che si avvera sempre, è quella in cui i nostri pensieri sono orientati verso un’anticipazione di negazione, di rifiuto, di mancanza di realizzazione. La frase che diciamo dopo è “Lo sapevo che sarebbe andata a finire così!”. Questa modalità ci fa precipitare in una spirale discendente di cattivo umore e pessimismo. Conseguenza? Meglio non aspettarsi nulla, così non si resta delusi. Ancora uno stallo.

Siamo ora nel cuore delle aspettative che rendono annebbiata la vista, che fanno prendere  lucciole per lanterne. Le aspettative si nutrono delle nostre convinzioni: su noi stessi, sul nostro modo di vedere il mondo, di leggere le nostre relazioni. Si alimentano del nostro modo di valutare e dei nostri giudizi.

Giudicare è una facoltà più animale che umana. È capire istantaneamente se abbiamo davanti un “pericolo”. La capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, ha garantito la sopravvivenza a tutte le specie animali.

Noi esseri umani abbiamo affinato questa tecnica trasformandola in selettività, separando e catalogando le varie situazioni dapprima come cattive/buone, brutte/belle, sbagliate/giuste per noi.
In seguito abbiamo iniziato ad applicare la stessa selettività con le persone che abbiamo intorno, e di conseguenza con le dinamiche relazionali instaurate, inserendole in questi grandi schemi.
Se ciò che avviene accade per la prima volta, cerchiamo un’esperienza precedente che ce la ricordi, che le assomigli in qualche modo, per individuarne il potenziale pericolo. Avviene tutto a livello istintivo, immediato, senza che il pensiero razionale si metta in moto.
Questo è il principio su cui si è basato il giudizio: va bene per me oppure no? Mi distrugge o aiuta?

Cattivo/buono, brutto/bello, sbagliato/giusto sono aggettivi. I nomi sono la realtà, gli aggettivi sono attributi che noi applichiamo a quel nome, a quella realtà, a seconda di ciò che essa ha stimolato in noi.
Come già detto, i giudizi sono istintivi, non razionali. Sono loro che orientano la nostra visione della realtà e ci portano ad avere aspettative di un tipo o di un altro.
Se applichiamo il metro di misura dell’istintività al giudizio, non possiamo dire di essere oggettivi nel valutare una qualsiasi situazione o persona. Ci piace: ci aspettiamo solo cose positive; non ci piace: ci aspettiamo solo cose negative. Immancabilmente, in un modo o nell’altro, prima o poi, veniamo delusi. E la colpa è sempre là fuori.

La prerogativa più infida delle aspettative è quella di renderci non solo poco lucidi, ma anche immobili. Quando aspettiamo qualcosa, non agiamo, convinti che sia già in arrivo nel bene o nel male. Non facciamo nulla per andarle incontro, niente per evitarla. Questo potrebbe essere definito “fatalismo”, cioè accettare che le cose accadano senza tentare di cambiarle se non ci vanno bene.
È come se fossimo seduti su una panchina in stazione per aspettare il treno delle opportunità. I treni passano e noi li guardiamo e pensiamo: “Questo è un treno merci, no!”, “Questo non ha la carrozza ristorante”, “Questo è troppo vecchio”, “Qui c’è troppa gente”, … aspettiamo, aspettiamo e non saliamo su alcuno perché non è il treno giusto. Così rischiamo di passare la nostra stessa esistenza seduti su quella panchina in attesa del treno che vogliamo noi. Solo perché abbiamo delle aspettative sul tipo di treno su cui vogliamo salire.

In sintesi: le aspettative ci bloccano la vista e l’azione, non ci permettono di cogliere l’attimo delle opportunità, di ricevere un nuovo punto di vista, una nuova esperienza in tutta la sua singolarità e autenticità.
Ma quel che è peggio, è che le crediamo vere. Lucciole per lanterne.

Ricercatori o esploratori?

di Ermanna

Si potrebbe suddividere l’umanità in due macro-aree:  i ricercatori e gli esploratori. Qual è la distinzione tra i due termini?

I ricercatori  sono coloro i quali investigano per trovare qualcosa che confermi le loro ipotesi e teorie, le loro aspettative e desideri, i loro punti di vista e opinioni. Perseverano fino a quando non trovano quello che “cercano”, incessantemente,  senza tregua, scartando ciò che ritengono non sia importante o in linea con l’oggetto della ricerca. E spesso non arrivano al dunque, se non dopo molto, molto tempo, o adattano il risultato per farlo aderire il più possibile al loro obiettivo.

Gli esploratori sono coloro che partono alla ventura. Si muovono nel campo senza cercare nulla di specifico, osservano quello che hanno intorno, lo vivono, lo assaporano. Qualsiasi cosa si presenti non ne erano in attesa, non l’hanno cercata. In questo modo la accolgono per ciò che è, con semplicità.
E proprio quando non c’è alcuna aspettativa e non si cerca nulla in particolare, qualcosa accade. Una sorpresa che desta meraviglia riempiendo il cuore, che desta stupore riempiendo la mente. E sempre, sempre, si trova  in essa uno spunto, uno stimolo, un’occasione, una nuova amicizia, una nuova visione, un nuovo mondo. Basta solo rimanere aperti e guardare.

Il ricercatore nasce dalla mente razionale, rigorosa, logica. È ancorato al passato con cui si nutre tramite i ricordi e le esperienze pregresse, attraverso il confronto costante. Il ricercatore pone il passato davanti, al posto del futuro, e su di esso basa la sua ricerca.

L’esploratore è la manifestazione della mente creativa, duttile, analogica. È ricettivo, libero di muoversi senza vincoli o schemi. Per lui tutto è nuovo. L’esploratore non ha pietre di paragone, ha lo sguardo non diretto al passato o al futuro, ma attento al presente, al qui e ora. Per questo non ha alcuna aspettativa e non rimane deluso o frustrato.

E noi dove ci collochiamo? Più nella ricerca o più nell’esplorazione?

Ognuno può scegliere come usare la mente. Entrambi gli aspetti sono necessari per la sopravvivenza e la vita quotidiana, tuttavia è opportuno farne un uso consapevole.

La mente razionale è utile e necessaria per organizzare, predisporre, agire per e nella materia, come gli impegni, i doveri e le responsabilità. È preziosa nella nostra relazione con il mondo del Fare e dell’Avere.

La mente creativa, e creatrice, è fondamentale sempre. È l’unica via che abbiamo per rimanere flessibili, disponibili ad accogliere non solo gli eventi e gli altri, ma anche noi stessi. Questa capacità ci permette di esplorare il nuovo, sia dentro sia fuori di noi, senza pregiudizi, preconcetti e aspettative. È, quindi, l’espressione del mondo dell’Essere.

La cosa migliore, come sempre, è trovare la giusta sinergia tra queste facoltà, senza che l’una prenda il sopravvento sull’altra nel momento meno opportuno. Ma, soprattutto, è importante che la nostra parte esploratrice sia sempre attiva, aperta e curiosa, così da attuare il “Carpe diem” dei latini e di vivere l’attimo in pienezza.

Sulla Chiusura – parte seconda

di Ermanna

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Segue da Parte prima

Nel concetto di chiusura identifichiamo tradizionalmente l’energia della morte, della fine e del “non esiste più”, come mancanza o perdita. Questa prospettiva può dare al termine, oltre a quanto detto, un senso di esclusione, respingimento o un allontanamento da qualcosa di fastidioso e insopportabile, che ha fatto soffrire. Un voltare le spalle con disdegno e rabbia. Ma non è nel dire “basta” che si elimina un evento a livello emozionale, perché si rinnova costantemente ogni volta che qualcosa ce lo rammenta.

La chiusura va considerata invece come fine di un ciclo, come conclusione di qualcosa che non ha più necessità di continuare, che ha finito la sua funzione formativa. Ogni persona, ogni essere vivente o meno, ha un suo inizio, uno sviluppo per arrivare alla sua massima espressione, per poi recedere fino alla sua spontanea conclusione. Lo stesso vale per le situazioni di vario genere e le relazioni. Esse possono durare anche tutta una vita, se la loro funzione e il loro scopo vengono alimentati e rimangono vitali. In caso contrario giungeranno al termine, sia che lo vogliamo oppure no. La vita ha il suo scopo, il suo motivo di essere nell’evoluzione. Una fine non significa qualcosa di totalizzante che fa sparire tutto di punto in bianco. Noi non sappiamo come e dove si trasferisce ciò che ha concluso il suo percorso su questa terra.

È grazie all’energia della conclusione, compensativa a quella della vita, che l’esistenza riprende con nuovo vigore. E questo può accadere solo se viene compresa la fine di ogni ciclo e si accoglie il suo termine con cuore sereno. 

Come possiamo intraprendere qualcosa di nuovo, con energie depauperate e stanche? Come possiamo iniziare un nuovo ciclo, se non chiudiamo quello precedente che continua a sottrarci vitalità? 

Dalla natura abbiamo imparato che ciò che muore viene trasformato e rimesso in circolo per dare nuovo impulso alla creazione. Essa non piange, non si oppone, non si dispera. Si lascia trasformare. Nulla si crea e nulla si distrugge, – lo ha detto Einstein – e tutto si trasforma. Resta in circolo ciò che nutre. 

Esattamente come la spada di Grifondoro in Harry Potter: separa ciò che è utile da ciò che non lo è. Seleziona. E  “assorbe solo ciò che la fortifica”. 

Quando desideriamo che un’esperienza conclusa sia la base del nuovo, è bene lasciarla andare in serenità. Fare ciò è comprendere che quello che abbiamo vissuto ha creato un insegnamento per noi. Molto importante è riconoscerne il valore  per riuscire a scrollarci di dosso un carico emotivo pesante. 

Se non siamo in sintonia con il movimento energetico della chiusura,  se non lo abbiamo compreso, non potremo recidere il legame con ciò che abbiamo vissuto e tratterremo ancora una parte dell’esperienza; ne saremo sempre influenzati, appesantiti. Questo fardello impedirà un rinnovamento effettivo, un’apertura sincera ed efficace, scevra da qualsiasi condizionamento precedente. Senza la capacità e la volontà di chiudere, non permettiamo l’ingresso di nuove esperienze, di nuovi sentimenti, di nuove relazioni, semplicemente perché non abbiamo creato lo spazio per accoglierle. 

A questo punto la chiusura si rivela non come un’azione atta a tagliare i ponti con il passato,  con le persone che ci hanno fatto soffrire, come un mezzo per dimenticare il brutto – ma anche il bello –  di quanto accaduto, bensì come alleato. Un alleato che ci aiuta a fare spazio dentro di noi per accogliere il nuovo. Non possiamo collocare mobili nuovi, se prima non liberiamo la stanza da ciò che è vecchio.

Messa in questi termini,  la fine di ogni ciclo offre la possibilità di fermarsi un momento per ricordare e riconoscere quanto di bello e utile è stato prodotto e come ha arricchito la nostra esistenza (assorbe solo ciò che la fortifica), lasciando andare il dolore, il rimpianto, il rancore, la rabbia o sentimenti negativi nei confronti di coloro che hanno partecipato e condiviso la nostra esperienza.  

Riconoscere il termine di ciò che non è più funzionale per la nostra vita e operare con l’intento di lasciar andare il superfluo, è liberatorio. È decidere di uscire da una stanza e chiudere la porta dopo aver spento una luce che, altrimenti, avrebbe continuato a consumare elettricità a nostra insaputa. 

Una chiusura “ben fatta” non dipende dagli altri. Dipende da noi. È un lavoro molto personale. Non possiamo delegare ad altri il compito di spegnere la luce in casa nostra. Non possiamo chiedere agli altri di sanare le nostre emozioni, le nostre ferite. Non possiamo far entrare il nuovo nel nostro cuore, se prima non eliminiamo emozioni come tristezza, dolore,  paura, rancore e rimpianto che vi albergano. 

Chiudere con questo intento non porta la dimenticanza. Harry ricorda tutti gli avvenimenti e le persone coinvolte, ma ha trovato pace e serenità permettendo a se stesso di essere nutrito dai sentimenti positivi che quelle esperienze gli hanno lasciato.

Per poterlo fare, è opportuno riconoscere che ogni esperienza è stata utile – anche se non lo vogliamo ammettere -,  e che, avendo concluso il suo ciclo, si è trasformata in zavorra da scaricare. Decidere di operare in tal senso, ci rende responsabili di noi e disponibili a lasciare andare ciò che ci ha ferito, spaventato (anche una malattia), che ha creato tensioni e difficoltà, sapendo che siamo noi ad avere nelle nostre mani il boccino d’oro contenente la pietra della nostra resurrezione.

Comprendere qual è il momento opportuno per chiudere un’esperienza, è una capacità fondamentale tanto quanto sapere come agire la chiusura in modo che non lasci  risonanze dentro di noi nel futuro.

Ogni momento è corretto per poter mettere in atto una chiusura, ma la fine dell’anno è sicuramente un momento in cui vogliamo dimenticare ciò che lasciamo, per sperare in quello che il nuovo anno potrebbe portare.

È proprio in questo particolare periodo che abbiamo l’opportunità di raccoglierci in riflessione e liberarci da pesi che sono diventati superflui: togliamo loro energia per riappropriarcene, in modo da aprire davvero le porte al nuovo.

Una frase ormai più che abusata, ma che secondo me mantiene un suo significato profondo, è “Quando si chiude una porta, se ne apre un’altra”. Molti sostengono che non sia vero.

Pensiamo a questo… abbiamo veramente chiuso quella porta o l’abbiamo lasciata aperta? 

 

 

 

 

 

Sulla Chiusura – parte prima

di Ermanna

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Chiudere situazioni, rapporti o altro è un evento frequente. In certi frangenti siamo noi a scegliere, altre volte accade e basta. In alcune occasioni, la fine di qualcosa lascia strascichi per tutta la vita. 

C’è un altro modo di vivere una chiusura? 

Verso la fine dell’ultimo film della saga di Harry Potter, c’è un passaggio in cui sulla superficie lucida del boccino d’oro tenuto in mano dal ragazzo, compare la scritta: “Mi apro alla chiusura”.  Cosa significa, aldilà del significato letterale?  Come si può aprire per chiudere? Come si può chiudere attraverso un’apertura? 

Quando parliamo di aprire, pensiamo automaticamente all’azione opposta di chiudere,  come azione per impedire un accesso o una fuoriuscita. Una porta, un cancello, una finestra, ma anche una bottiglia di acqua gassata, un pacchetto di biscotti… Tutto si può aprire o chiudere  con lo strumento giusto: una chiave, un tappo o le nostre mani.

Queste aperture sono possibili solo perché c’è stato qualcosa/qualcuno che prima ha chiuso la porta, il cancello, il pacchetto di biscotti. Forse siamo stati proprio noi a farlo. 

Se non c’è una chiusura, non c’è possibilità di apertura. Il cancello aperto permette il movimento dentro-fuori. Il pacchetto di biscotti aperto permette all’umidità di entrare e alla fragranza di uscire, alterandone la qualità. Le chiusure quindi sono necessarie con la loro funzione di sigillare, non permette più un passaggio.

“Mi apro alla chiusura”. Per aprirmi, io devo rendermi conto di aver chiuso. Chiuso, forse, alla possibilità di vedere le cose da un altro punto di vista. Nel caso di Harry, l’apertura alla chiusura indica la disponibilità a compiere un atto di estremo coraggio: morire per poter arrivare alla fine di un conflitto che coinvolge tutto il mondo magico. La fine, il completamento di un ciclo, della sua vita.

Quante volte abbiamo dovuto rinunciare, con tanto coraggio, a tutto ciò che sentivamo importante per noi, per qualcosa di più grande? Quante volte invece non abbiamo rinunciato, chiedendoci poi perché la situazione precipitasse?   Tutti abbiamo esperienza di cosa significhi subire perdite, vivere delle chiusure non volute, inattese. È doloroso e spesso abbiamo difficoltà a procedere, ad andare oltre perché non vogliamo dimenticare o perdere o gettare la spugna.  Ma lasciar andare non è questo.

Harry, consegnandosi al suo antagonista-nemico, non si è arreso, non ha rinunciato a lottare. Ha compreso che l’unica via perché tutto possa finire, per offrire una possibilità di nuovo inizio ai suoi affetti, è sacrificare chi “è”, quello che lui rappresenta per sé e per gli altri.

Chiudere in questo modo non dà garanzie sul futuro e non rispetta le nostre aspettative. Fa paura. Paura che ci vengano tolte le nostre sicurezze, le nostre convinzioni per qualcosa che non possiamo, o sappiamo, prevedere.  A volte neanche la speranza di qualcosa di meglio sembra essere sufficiente per aiutarci a scegliere di chiudere, perché abbiamo perso fiducia nella vita, sempre improntata sulla crescita data dal cambiamento. Perché abbiamo perso la fede nelle nostre capacità, anche quelle di recupero. Perché siamo abituati a guardare il tempo come una linea retta senza fine invece di vederlo come una linea circolare, dove ogni punto può essere fine o inizio di un’altra circonferenza, di un altro processo, di una nuova possibilità.

Come fare per chiudere davvero, per non permettere a nulla di avere libero movimento dentro di noi, togliendoci non solo energia, ma anche pace interiore?

Per assolvere al suo “destino”, Harry entra nella foresta proibita con serenità di spirito e dignità, ottenute grazie alla vittoria sulle lotte interiori e esteriori che ha combattuto nella sua breve vita. La disperazione e la sofferenza si sono pacificate nella certezza di fare la cosa giusta. Non ha più alcuna aspettativa, nessun desiderio di riconoscimento, non ha più alcuna resistenza, nessuna lotta interiore. Non è rassegnato. È nel completo accoglimento di quanto avverrà. Nessun rimpianto o rancore. 

Ogni volta che chiudiamo qualcosa con queste energie nel cuore, accade l’inaspettato. E l’evoluzione dell’inaspettato spesso, se non sempre, è più funzionale alla nostra esistenza di quanto non fosse la situazione precedente. In quel momento non ce ne rendiamo conto e solo a distanza di tempo, dopo tanto dolore, ce ne accorgiamo.

Questo è capitato anche al protagonista della saga. Poco prima dello scontro finale quando il ragazzo ha toccato con le labbra il boccino d’oro, l’oggetto si è aperto e ne è fuoriuscita la pietra della resurrezione, facendo apparire i genitori e gli amici, scomparsi nella lotta contro Voldemort, che lo hanno rassicurato sulla correttezza della sua decisione. Una volta fatta la scelta, tutto si è ricalibrato. Gli è stata offerta la possibilità di vivere senza la schiavitù di ciò che di oscuro aveva in lui, una parte dell’anima del suo antagonista che si era agganciata alla sua fin da quando era piccolo, oppure scegliere di rimanere nell’aldilà. Se avesse scelto l’aldilà si sarebbe fermato. Ha scelto di tornare alla vita: ha scelto di andare avanti.

Anche noi abbiamo una scelta: continuare a vivere nel nostro limbo interiore, senza governo sui nostri dolori e sofferenze, con le pendenze di vecchie situazioni nel cuore, oppure decidere di cambiare le regole per iniziare qualcosa di nuovo. Il flusso dell’energia vitale ci supporta perché è nella sua natura farlo se noi lo accogliamo, così come i genitori di Harry lo hanno sostenuto nella sua ultima e definitiva impresa, perché l’amore non muore mai.

Una nuova possibilità è il dono – la nostra pietra della resurrezione – che ci viene offerto quando ci rendiamo conto che lottare contro o per qualcosa che non ha più scopo è non solo inutile, ma anche dannoso e che l’unica strada percorribile è quella di lasciar andare le vecchie modalità. È cambiare punto di vista. È trovare qualcosa di buono nella situazione o relazione che ha bisogno essere chiusa.  Questa chiave apre la via alla serenità; è comprendere che un’esperienza è un modo per imparare qualcosa di utile al cambiamento, ed è molto importante sapere come recuperarne il valore per scrollarsi di dosso il carico emotivo pesante legato ad essa. 

– continua –