Al di là della solitudine

Estratto da “Sull’Amore e la Solitudine” – J. Krishnamurti, Ed. Astrolabio

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Continua da ” Perchè la nostra vita è vuota?

Per andare al di là della solitudine, del senso di vuoto, bisogna comprendere come funziona la mente. Che cos’è ciò che chiamiamo vuoto, solitudine? Perché lo chiamiamo vuoto o solitudine? Con che strumento di misura diciamo che è questo e non quello? Qual è il punto di riferimento per definire qualcosa “vuoto” o “solo”? Il punto di riferimento è sempre il passato. Definendolo vuoto, gli applicate un nome e perciò credete di conoscerlo. Ma denominare una cosa non è un ostacolo alla sua comprensione? Molti di noi avvertono questa solitudine da cui vogliamo fuggire. Molti di noi sono consapevoli della povertà interiore, della manchevolezza interiore. Non è una reazione vana, è una realtà, e applicargli un nome non lo risolve. Continua a esserci. Come fare per conoscerne la natura, il senso? Dovete forse dare un nome a qualcosa per conoscerlo? Mi conoscete solo perché sapete come mi chiamo? Mi conoscere solo guardandomi, entrando in comunione con me; ma applicarmi un nome, incollarmi una definizione, mette fine alla nostra comunione. Per conoscere la natura di ciò che chiamiamo solitudine dobbiamo entrare in comunione con essa, e la comunione è impedita non appena le applichiamo un nome. Se vogliamo comprendere qualcosa, dobbiamo in primo luogo smettere di denominarlo. Se volete comprendere pienamente vostro figlio, cosa di cui dubito, che cosa fate? Lo guardate, osservate come gioca, lo studiate. In altre porle, dovete amare ciò che volete comprendere. Se amate una cosa, entrate naturalmente in comunione con essa. Ma l’amore non è una parola, né un nome e né un pensiero. Non potete amare ciò che chiamate solitudine perché non ne fate totalmente l’esperienza, ma l’avvicinate con paura, e non con paura della solitudine, ma di qualcos’altro. Non avete mai riflettuto sulla solitudine perché non sapete che cosa sia in realtà. Non ridete, non è una battuta.[…]
Ciò che chiamiamo senso di vuoto è un processo di isolamento prodotto dal nostro modo quotidiano di entrare in rapporto, perché consciamente o inconsciamente, nel rapporto cerchiamo soltanto l’esclusione. Volete essere gli esclusivi proprietari delle vostre ricchezze, di vostra moglie o di vostro marito, dei vostri bambini. Applicate a una persona o a una cosa la definizione mio, che vuol dire proprietà esclusiva. È questo processo di esclusione che porta inevitabilmente all’isolamento, e poiché nulla può esistere in isolamento si crea un conflitto, dal quel vorremmo fuggire. Tutte le possibili forme di fuga (attività sociali, l’alcol, la ricerca di Dio, la puja*, cerimonie, danze e altre divagazioni) sono sullo stesso livello. Se, nella vita quotidiana, vediamo questo continuo tentativo di fuga dal conflitto, e se vogliamo superarlo, dobbiamo comprendere il nostro modo di rapportarci. Solo quando la mente non fugge più, qualunque sia la forma di fuga, è possibile essere in comunione diretta con quella cosa che chiamiamo solitudine, essere soli. Per rimanere in comunione con essa, dobbiamo diventarle amici, dobbiamo provare amore. Per comprendere qualcosa dovete amarlo. L’amore è l’unica rivoluzione, e l’amore non è una teoria, un’idea astratta. Non si impara sui libri, non dipende da modelli sociali prestabiliti.
La soluzione non va cercata nelle teorie, che non fanno che creare ulteriore isolamento. Si trova solo quando la mente, che è pensiero, non vorrà più fuggire dalla solitudine. La fuga alimenta il processo di isolamento, mentre la verità è che ci può essere comunicazione solo dove c’è amore. Solo allora il problema della solitudine verrà risolto.

 

* Puja – Presso la religione induista e anche in molte tradizioni buddhiste, Pūjā (devanagari पूजा) (dal sanscrito reverenza) è un termine che genericamente indica un atto di adorazione verso una particolare forma della Divinità, che può esprimersi in un’offerta (upachara), un culto, una cerimonia o un rito. Fonte: Wikipedia

 

Perché la nostra vita è vuota?

Estratto da “Sull’Amore e la Solitudine” – J. Krishnamurti, Ed. Astrolabio

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Bombay, 12 febbraio 1950     
[…]  Perché la nostra vita è vuota? Siamo attivissimi, scriviamo libri andiamo al cinema, ci divertiamo, amiamo e lavoriamo, eppure la nostra vita è vuota, noiosa, semplice routine. Perché i nostri rapporti sono così sciatti, vuoti e insignificanti? Conosciamo la nostra vita abbastanza bene per sapere che la nostra esistenza ha davvero scarso significato: citiamo frasi e idee che abbiamo sentito da altri, che cosa ha detto questo e quello, che cosa hanno detto i mahatma, i santi contemporanei e i santi dell’antichità. Se non seguiamo una guida religiosa, ne seguiamo una politica o intellettuale. […]
Siamo come dischi incisi, e chiamiamo conoscenza quella che è semplice ripetizione. Impariamo qualcosa, lo ripetiamo, e la nostra vita rimane profondamente sciatta, vuota, squallida. Perché? Perché succede questo? Perché abbiamo assegnato tanta importanza al pensiero? Perché la mente è diventata così preponderante (idee, pensieri, la capacità di razionalizzare, di soppesare, di paragonare, di calcolare)? Perché abbiamo dato alla mente una così enorme importanza? Non sto dicendo che dovremmo diventare degli irriflessivi, degli emotivi e sentimentali. Ma avvertiamo il vuoto della nostra vita, questo enorme senso di frustrazione. Perché questa piattezza, questa superficialità? Potremo capirlo solo esaminando il nostro modo di agire nei rapporti.

Cosa accade realmente nei nostri rapporti? Più che rapporti, non sono isolamenti? Qualunque attività della mente non è forse rivolta alla propria salvaguardia, sicurezza e difesa? Il pensiero, che definiamo processo collettivo, non è invece un processo di isolamento? Ogni nostra azione non è forme un atto di auto-reclusione? […] Tutte le nostre azioni mirano all’isolamento, ed è questo che crea il senso di vuoto. Sentendoci vuoti, cerchiamo di riempire il vuoto con la radio, il rumore, le chiacchiere, i pettegolezzi, la lettura, l’acquisizione di conoscenze, la rispettabilità, il denaro, la posizione sociale, e così via. Sono tutte componenti del processo di isolamento, e perciò non fanno altro che rafforzarlo. Per quasi tutti gli uomini la vita vuol dire isolamento, chiusura, resistenza, conformità ad un modello. È un processo senza vita, e di qui deriva il senso di vuoto, di frustrazione. Amare significa essere in comunione con l’altro non solo in parte, ma totalmente, integralmente, generosamente. Ma noi non conosciamo questo amore. Per noi, l’amore è solo una sensazione: la sensazione dei miei figli, di mia moglie, delle mie proprietà, delle mie nozioni, dei miei successi. Sempre lo stesso processo di isolamento. La vita è una serie di chiusure, è una spinta mentale ed emotiva all’isolamento, e solo occasionalmente entriamo in comunione con gli altri. Ecco da dove nasce l’enormità del problema.

Questa è la realtà della nostra vita (rispettabilità, proprietà e vuoto), da cui nasce la domanda: come andare oltre? Come superare questa solitudine, questo vuoto, questa pochezza, questa povertà interiore? Credo che la maggior parte di noi non voglia superarli. La maggioranza degli uomini è soddisfatta così. Cercare un altro modo di vivere è troppo faticoso, e così preferiamo rimanere come siamo: ecco il vero problema. Ci siamo circondati di sicurezze, ci siamo circondati di muri che ci fanno sentire al sicuro. Ma, di tanto in tanto, cogliamo un sussurro al di là del muro: un terremoto, una rivoluzione, una scossa che soffochiamo subito. La maggior parte di noi non vuole andare al di là del processo di auto-reclusione, e al massi cerchiamo un sostituto, la stessa cosa in una forma diversa. La nostra insoddisfazione è molto superficiale, una nuova sicurezza, una nuova protezione, che è sempre il solito processo di isolamento. Ciò che in realtà vogliamo non è andare oltre l’isolamento, ma rafforzarlo per renderlo il più possibile custodito e protetto. Sono pochi quelli che vogliono aprire una breccia per vedere che cosa c’è al di là del nostro senso di vuoto, di solitudine. Chi cerca soltanto un sostituto del vecchio troverà certamente qualcosa da cui far dipendere la sua nuova sicurezza, ma altri vorranno spingersi oltre, e noi andremo con loro.

– segue “Al di là della solitudine”

 

1 gennaio 2023

Estratto da “Pensieri Quotidiani” 2005 di Omraam Mikhaël Aïvanhov – Edizioni Prosveta

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Il più delle volte, per gli uomini, il futuro è motivo di preoccupazione: essi si chiedono continuamente se si troveranno a corto di denaro, se avranno di che mangiare, se avranno un’abitazione e così via. Sono talmente presi da queste preoccupazioni che dimenticano questioni molto più importanti, commettono errori ai quali dovrebbero rimediare ma che non correggono e, siccome tutte queste situazioni si accumulano, alla fine arriva il momento in cui saranno sommersi, schiacciati.

Per evitare di cadere in un simile ingranaggio, è necessario meditare sulle parole di Gesù: “Non affannatevi dunque per il vostro domani, perchè il domani avrà già le sue inquietudini”

Se ogni giorno controllerete che il vostro comportamento sia sempre impeccabile, il domani sarà interamente libero e sarete disponibili per intraprendere ciò che avrete deciso, rimanendo però ancora vigili per non trascinarvi dietro nulla. In questo modo, ogni nuovo giorno vi troverà liberi, ben disposti, pronti a lavorare, a studiare, ad essere contenti, e tutta la vita assumerà un colore straordinario di felicità e di benedizione.

Prestando attenzione a regolare ogni cosa oggi, implicitamente pensate al domani.

 

 

 

 

La nostra modalità perduta di preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

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Segue da “Dolore, benedizione, bellezza e preghiera”.

Viviamo in un mondo fatto di esperienze che mettono alla prova la nostra sensibilità e ci spingono ai limiti di ciò che è considerato accettabile da esseri razionali e capaci di amore quali noi siamo. Come provare emozioni collegate a un senso di pace e guarigione, mentre siamo testimoni di guerre e genocidi che avvengono al di là dei nostri confini e di fronte all’odio basato sulla diversità che si manifesta nelle nostre stesse comunità? È chiaro che dobbiamo trovare un modo per interrompere il circolo vizioso di dolore-sofferenza-rabbia-odio, se intendiamo trascendere le situazioni in cui ci troviamo.

Col linguaggio del loro tempo, le antiche tradizioni ci hanno tramandato istruzioni precise su come fare proprio questo! Quelle parole ci ricordano che “la vita” non è niente di più e niente di meno che uno specchio della nostra evoluzione interiore. La chiave per sperimentare la vita in quanto bellezza o dolore sta soltanto nella nostra capacità di impersonare queste qualità in ogni momento della giornata. Oggi un corpus crescente di prove scientifiche sta rafforzando sia l’attendibilità di questa forma di saggezza, sia l’importanza del nostro ruolo personale nell’alimentare la sofferenza o la guarigione del mondo.

Alcuni esperimenti svolti sul finire del XX secolo hanno confermato che siamo immersi in un campo di energia che collega tutti noi agli eventi che avvengono nel mondo. La ricerca ha dimostrato che grazie a questo campo energetico, al quale sono stati attribuiti i nomi più diversi, da Ologramma quantico a Mente di Dio, le convizioni e le preghiere che trovano posto dentro di noi sono trasmesse al mondo fuori di noi. Sia la scienza che le antiche tradizioni ci indicano lo stesso concetto: dobbiamo incarnare nella vita quotidiana le condizioni che desideriamo sperimentare nel mondo. Nascoste nelle più isolate e remote località che restano ancora sulla Terra, si trovano le istruzioni per praticare una modalità perduta di preghiera che ci aiuta proprio a fare questo.

Nella primavera del 1998 ho avuto l’onore di facilitare un pellegrinaggio durato ventidue giorni nei monasteri del Tibet centrale, ricercando le prove di una forma di preghiera antica e dimenticata – un linguaggio capace di parlare al campo che unisce tutte le cose. I monaci e le monache che vivono in quei luoghi hanno condiviso con noi le istruzioni riguardanti un modo di pregare che è andato largamente perduto in Occidente, a causa dei tagli imposti alla Bibbia dalla Chiesa paleocristiana. Conservata per secoli nei testi e nelle tradizioni dei popoli stanziati sul tetto del mondo, questa modalità “perduta” di preghiera non si basa nè sulle parole nè sull’esteriorizzazione. È fondata unicamente sulle emozioni.

In particolare, ci invita a evocare in noi stessi la sensazione che la nostra preghiera sia già stata esaudita, anzichè quella di sentirci inermi e bisognosi di aiuto da parte di una fonte superiore. In anni recenti, le ricerche hanno dimostrato che questa specifica qualità di sentimento riesce effettivamente a “parlare” con il campo che collega l’umanità con il mondo. Attraverso preghiere costituite da emozioni, possiamo riappropriarci del potere di contribuire alla guarigione della nostra vita e dei rapporti, oltre che quella del corpo fisico e del mondo.

Fare come gli Angeli…

La chiave di utilizzo di questo modo di pregare risiede nel riconosere il potere nascosto della bellezza, della benedizione, della saggezza e del dolore. Ognuno di questi stati gioca un ruolo imprenscindibile nell’arena più vasta che ci permette di sentire, imparare, lasciar andare e trascendere le nostre più profonde ferite. Le parole di un anonimo scriba che annotò gli insegnamenti di Gesù quasi duemila anni fa ci ricodano che sia il potere di cambiare il mondo, sia gli ostacoli che si frappongono fra noi e quella facoltà, risiedono entrambi dentro di noi. Gesù affermo semplicemente che “la cosa più difficile da fare [per gli esseri umani] è di pensare i pensieri degli angeli… e di fare come gli angeli”.

La preghiera rappresenta il linguaggio di Dio e degli angeli. È anche il linguaggio dato all’umanità per guarire le sofferenze della vita mediante il ricorso alla saggezza, alla bellezza e alla grazia. Oggi, apprendere il potere della preghiera su internet o su un’antica pergamena del primo secolo non fa differenza. Il messaggio è lo stesso: riuscire ad accettare la nostra capacità di usare quel linguaggio universale può rivelarsi la sfida maggiore della nostra vita. Allo stesso tempo, però, rappresenta anche la nostra maggiore fonte di forza. Quando non ci resterà più alcun dubbio sul fatto che sappiamo già parlare il linguaggio fatto di sentimenti di cui è costituita la preghiera, risveglieremo una parte di noi che nessuno ci potrà mai sottrarre, rubare o portare via. Questo è il segreto della scienza perduta della preghiera.

Gregg Braden – Taos, Novo Messico – 2006

 

 

 

Dolore, benedizione, bellezza e preghiera

Estratto da “La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden – Macro Edizioni

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Racchiusa nel sapere di coloro che ci hanno preceduti, ritroviamo l’antica saggezza capace di ridare forza alle nostre preghiere di pace e guarigione. Dagli antichi scritti gnostici ed esseni alle tradizioni dei nativi di tutte le Americhe, il dolore, la benedizione e la bellezza sono concordemente riconosciuti come chiavi di sopravvivenza rispetto alle maggiori prove cui è sottoposta l’umanità. La preghiera è il linguaggio che ci permette di applicare le nostre lezioni di vita alle situazioni che viviamo.

Da questa prospettiva “saggezza” e “dolore” sono i due estremi della stessa esperienza, l’inizio e il completamento dello stesso ciclo. Il dolore si pone come sentimento iniziale, risposta istitntiva a una perdita, a un dispiacere o a notizie dei media che turbano la nostra sensibilità. La saggezza rappresenta l’espressione del dolore dopo la sua guarigione. Noi trasformiamo il dolore in saggezza, dando un nuovo significato alle esperienze dolorose. Benedizione, bellezza e preghiera sono gli strumenti di cambiamento di cui disponiamo.

Il reverendo Samuel Shoemaker, utopista cristiano del XX secolo, ha destritto il potere di trasformazione della preghiera con una semplice e poetica frase, forse ingannevolmente semplice: “La preghiera può non cambiare le cose per voi, – afferma – ma  sicuramente  cambia voi, nel modo in cui affrontate le cose”. Sebbene possa essere impossibile risalire nel tempo per eliminare la causa della nostra sofferenza, abbiamo in ogni caso il potere di assegnare un diverso significato alla perdita di una persona amata, allo sconvolgimento derivante dalla rottura di una promessa o ai dispiaceri della vita. Nel fare ciò, spalanchiamo le porte perfino alla guarigione dei nostri ricordi più dolorosi.

Senza aver compreso la relazione esistente fra la saggezza e le nostre ferite, la sopportazione del dolore potrebbe apparire priva di significato – perfino crudele – e prolungarsi, lasciando perennemente aperto quel circolo vizioso. Come possiamo dunque rimuovere noi stessi dal dolore abbastanza a lungo da poter discernere la saggezza contenuta nelle nostre esperienze di vita? Mentre lottiamo contro una perdita, una violazione di fiducia o un tradimento che ci sembravano impensabili anche solo poche ore o minuti prima, come possiamo dichiarare tregua alle nostre emozioni per il tempo necessario a sviluppare un diverso modo di sentire? Questo è il momento in cui fa la sua comparsa il potere della benedizione.

Benedire significa lasciare andare

“Ti benedico” è l’antico segreto che sospende l’esperienza del dolore quanto basta, per rimpiazzarla con un altro sentimento. Quando benediciamo le persone o le cose che ci hanno feriti, interrompiamo momentaneamente il ciclo del dolore. Non fa alcuna differenza che la sospensione duri un nanosecondo o una giornata intera. Qualunque ne sia la durata, l’atto di benedire ci spalanca una porta per cominicare a star meglio e voltare pagina. La chiave di tutto sta nel sollevarsi dal dolore per il tempo necessario a riempire il cuore e la mente con qualcos’altro. Quel qualcosa è il potere della “bellezza”.

La bellezza trasforma

Le tradizioni più sacre e antiche ci ricordano che la bellezza permea tutte le cose, a prescindere dal modo in cui le interpretiamo nella vita quotidiana. La bellezza è già creata ed è sempre presente. Per soddisfare il nostro mutevole concetto di equilibrio e di armonia possiamo modificare ciò che ci circonda, instaurare nuovi rapporti o trasferirci in altri luoghi, ma i tasselli che vanno a costituire quella nuova bellezza sono già al loro posto.

Al di là dell’apprezzamento rivolto a cose che sono semplicemente gradevoli allo sguardo, le antiche tradizioni di saggezza decrivono la bellezza come un’esperienza capace di influenzare anche il cuore, la mente e l’animo umani. Grazie alla nostra capacità di percepire la bellezza perfino nei momenti “più brutti” della vita, possiamo elevarci al di sopra del dolore per il tempo sufficiente a dargli un diverso significato. In tal modo la bellezza diventa un dispositivo capace di proiettarci in una nuova prospettiva. La chiave, tuttavia, sta nel fatto che la bellezza sembra essere dormiente, fino a che noi non concentriamo su di essa la nostra attenzione. La bellezza si risveglia soltanto quando è invitata nell’esistenza umana.

Segue….