Il valore del silenzio

Viviamo in una cultura della comunicazione e dell’informazione, che inneggia alla condivisione di ogni pensiero, impressione e sentimento, siamo spesso indotti o inclini a non fermarci a riflettere su quanto sentiamo o, peggio ancora, sulle stesse parole che stiamo per pronunciare o che abbiamo appena pronunciato.
Spesso ci viene persino proposto come modello positivo, in quanto indice di presunta immediatezza e sincerità, il fatto di esprimere in modo diretto, senza pensare ciò che ci passa per la mente.
Invero si tratta di una dote tutt’altro che positiva perché indica un’incapacità di riflettere, di ponderare, di parlare con cognizione di causa, una superficialità per nulla affatto da prendere a modello.
È una grave mancanza di riflessione che potrebbe spingerci a vivere in modo superficiale, a ragionare solo sull’esteriorità, sull’apparenza nostra e del mondo circostante e, quindi, a perdere il contatto con noi stessi ed il nostro Io più profondo ed atavico.
Al contrario, quando riusciamo a prestare attenzione al silenzio, alla conversazione che abbiamo internamente tra noi stessi, il nostro animo e la nostra mente, e impariamo a frequentare e abbracciare questi “spazi” e “tempi” di intimità, siamo in grado di collegarci con la nostra essenza.
Si tratta si di una connessione molto profonda che è la vera base di una vita autentica, di un impegno serio e sincero che prendiamo con noi stessi.
È una delle condizioni necessarie per autorealizzarci.
Dedicandoci al silenzio come l’intervallo tra le nostre interazioni verbali con gli altri, siamo in grado di cogliere il vero significato di ciò che emerge da tali scambi e di assimilarlo nella nostra psiche, il luogo intimo dal quale fluiscono naturalmente tutte le motivazioni più sincere e l’impegno creativo.
Ed è proprio l’impegno creativo con i nostri processi interni che ci permette di scoprire di più su chi siamo, di prendere coscienza dei vari aspetti di noi stessi che prima ci erano nascosti o oscuri, di maturare.
È ciò che ci dà modo di essere più autentici, più spontanei, più genuini, di avere una vita più piena, appagante, serena e, quindi, di sentirci maggiormente realizzati, di controllare e gestire in modo più attivo la nostra esistenza e il mondo che ci circonda.
La comunicazione verbale e il tacere sono entrambi di vitale importanza. Sono due parti di un tutto tra le quali oscilliamo costantemente.
La comunicazione verbale racconta ed esprime agli altri e al mondo quanto sta succedendo dentro di noi.
Ma il silenzio non è soltanto un intercalare tra due momenti di dialogo. Se lo valutiamo e lo rivalutiamo per ciò che davvero è, si rivela proprio un prezioso strumento per metabolizzare quanto abbiamo appena detto o sentito, per scoprirne il profondo senso, le implicazioni per noi e per gli altri.
Così, la nostra comunicazione diventa una sorta di forum per esplorare nuovi territori in noi stessi.
Le domande che ci possiamo porre nei momenti di silenzio riflessivo sono molte e ci danno modo di smetterla di essere estranei a noi stessi e di iniziare a scoprire chi davvero siamo.
Da un simile processo prendono le mosse la crescita personale, la possibilità di migliorarci, di capire a fondo noi stessi, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Quando scegliamo l’importanza del silenzio come occasione per ripiegarci su noi e riflettere, per sintonizzarci su chi siamo e che cosa vogliamo, per comprendere di più le sfumature di ciò che ci rende unici e irripetibili ci accostiamo anche a scoprire l’effettivo senso della nostra vita.
Non dobbiamo, dunque avere paura del silenzio, né quando siamo soli né quando siamo con gli altri.
Il silenzio è un modo per pensare, per metterci davanti al nostro io, alla realtà. Non stupisce, dunque, se la società di ieri ci ha abituati a una vita all’insegna dell’inquinamento acustico: è un modo per impedirci di riflettere, di riappropriarci dei nostri pensieri, delle nostre decisioni.
È chiaro anche perché i giovani non sopportino il silenzio in quanto è un modo per costringerli a guardarsi dentro e non accontentarsi dell’esteriorità, un imperativo che li obbliga a porsi delle domande e, dunque, a doversi impegnare per trovare le risposte.
Si spiega così anche perché con una persona con la quale non abbiamo molta confidenza il silenzio crea disagio, mentre, invece, con chi abbiamo una certa sintonia, esso è più loquace di mille discorsi, di mille parole.
Il silenzio, pertanto, è una forma di comunicazione superiore, capace di dire molto perché parla il linguaggio delle emozioni, dei pensieri, delle sensazioni che nessuna forma di comunicazione verbale saprebbe mai tradurre in modo tanto pieno, intenso e profondo… Quindi, più che mai…
Enjoy the silence.

Rev. Billy Talen

 

Il problema del quattro

Estratto da: “La filosofia in 32 favole” di Ermanno Bencivenga  Ed. Mondadori

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Un giorno  il  numero  quattro  si  stancò  di essere pari. I numeri dispari, pensava, sono molto più allegri e spiritosi. E si stancò di quella sua forma un po’ insipida, a sediolina. Guarda il sette, si diceva, com’è svelto ed elegante, e il tre com’è tondo ed arguto, e io invece sono tutto pieno di angoli e privo di personalità. E si stancò di essere due più, che tutti lo sanno e anzi quando vogliono dire una cosa che sanno tutti dicono: “Quanto fa due più due?”. Sognava di essere un numero lungo e difficile, di quelli che te li dimentichi sempre e se li vuoi sommare devi prendere carta e matita.

Certo era un bel problema, perché non è che il quattro volesse diventare un altro numero, che so io?, il cinque o il 1864372. Lui voleva essere lui, rimanere se stesso, eppure voleva anche essere come il cinque, dispari cioè, o come il 1864372 numero lungo e difficile. E sembra proprio che il quattro non possa essere dispari, e non possa essere lungo e difficile, oppure non sarebbe il quattro. Sarebbe un’altra cosa, e lui non voleva essere un’altra cosa: voleva esser lui, solo un po’ diverso.

Un problema così il quattro non sapeva risolverlo. Forse non aveva neanche una soluzione. Se ce l’aveva, però, il Grande Matematico doveva saperla. Così il quattro andò dal Grande Matematico e gli espose il suo caso. Il Grande Matematico sorrise. Anche lui una volta avrebbe voluto essere diverso: non un altro, ovviamente, perché voleva rimanere se stesso, ma un po’ più simile al Grande Ballerino, o al Grande Tennista, o al Grande Centravanti. Anche lui quindi aveva avuto il problema del quattro e sapeva come affrontarlo. Lo fece accomodare per terra (una sedia sarebbe proprio stata inutile!) e cominciò a parlargli.

“Vedi, quattro – disse – non c’è bisogno di diventare diverso, di essere dispari per esempio, oppure lungo e difficile. Non c’è bisogno perché tu sei già diverso, anche se non te ne rendi conto. A te sembra di essere una stupida sediolina che fa due più due e tutti lo sanno, e invece ci sono in te cose che nessun altro numero ha, cose molto speciali. Per esempio, tu sei due più due ma anche due per due e anche (qui andiamo sul difficile) due alla seconda. E questo è un fatto del tutto straordinario: tre più tre non è anche tre per tre, e certo non è tre alla terza. Oppure prendi quest’altra; quattro per quattro sommato a tre per tre fa cinque per cinque, il che vuol dire che tre,quattro e cinque sono una famiglia di numeri pitagorici consecutivi, e di famiglie così non ce ne sono altre. Il sette, che tu ammiri tanto, non ne ha una. Oppure….”.

Ma a questo punto il quattro era un po’ confuso e pregò il Grande Matematico di smettere. Quella faccenda dei numeri pitagorici non la capiva proprio e voleva pensarci su, perché gli sembrava importante. Se ne andò, e da allora è sempre lì che conta. Ha capito i numeri pitagorici e molte altre cose ancora, e ogni giorno scopre di essere più diverso.

 

 

Pensare: riflessioni dal passato e dal presente

„Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos’è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni. […] Perciò dobbiamo prima chiederci che cosa desideriamo; poi considerare per quale strada possiamo pervenirvi nel tempo più breve, e renderci conto, durante il cammino, sempre che sia quello giusto, di quanto ogni giorno ne abbiamo compiuto e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando a ciò verso cui il nostro naturale istinto ci spinge.
Finché vaghiamo a caso, senza seguire una guida ma solo lo strepito e il clamore discorde di chi ci chiama da tutte le parti, la nostra vita si consumerà in un continuo andirivieni e sarà breve anche se noi ci daremo giorno e notte da fare con le migliori intenzioni. Si stabilisca dunque dove vogliamo arrivare e per quale strada, non senza una guida cui sia noto il cammino che abbiamo intrapreso, perché qui non si tratta delle solite circostanze cui si va incontro in tutti gli altri viaggi; in quelli, per non sbagliare, basta seguire la strada o chiedere alla gente del luogo, qui, invece, sono proprio le strade più frequentate e più conosciute a trarre maggiormente in inganno.
Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l’andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione.“
— Lucio Anneo Seneca, libro De vita beata
I sec. dC
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Socrate diceva: “Non so niente, proprio perchè se non so niente problematizzo tutto”. La filosofia nasce dalla problematizzazione dell’ovvio: non accettiamo quello che c’è, perchè se accettiamo quello che c’è, lo ricorda Platone, diventeremo gregge, pecore. Ecco: non accettiamo quello che c’è.
La filosofia nasce come istanza critica, non accettazione dell’ovvio, non rassegnazione a quello che oggi va di moda chiamare sano realismo. Mi rendo conto che realisticamente uno che si iscrive a filofosia compie un gesto folle, però forse se non ci sono questi folli, il mondo resta così com’è… così com’è. Allora la filosofia svolge un ruolo decisamente importante, non perchè sia competente di qualcosa, ma semplicemte perchè non accetta qualcosa.  E questa non accettazione di ciò che c’è non la esprime attraverso revolverate o rivoluzioni, l’esprime attraverso un tentativo di trovare le contraddizioni del presente e dell’esistente, e argomentare possibilità di soluzioni: in pratica, pensare. E il giorno in cui noi abdichiamo al pensiero abbiamo abdicato a tutto.
– Umberto Galimberti, Incontro Intellego -Percorsi di emancipazione democrazia ed etica  Copertino, 25 gennaio 2008

La scienza perduta della preghiera

Estratto da: ” La scienza perduta della preghiera” di Gregg Braden   – Macro Edizioni

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“Dentro di noi esistono forze selvagge e meravigliose”.

Con queste parole San Francesco d’Assisi descrisse il mistero e il potere che convivono nell’animo di ciascun uomo, donna e bambino della Terra. Rumi, il poeta sufi, ha descritto la grandezza di quel potere, paragonandolo a un fantastico remo che ci spinge lungo il flusso della vita. “Se anche voi come me porrete all’opera la vostra anima su questo remo” egli esordì “ il potere che ha creato l’universo entrerà nelle vostre membra non da una fonte esterna, bensì da un regno celeste che dimora in ciascuno di noi”.

Attraverso il linguaggio della poesia, Rumi e San Francesco esprimono un concetto che va oltre la natura ordinaria dell’esperienza quotidiana. Con le parole del loro tempo, ci ricordano ciò che gli antichi definivano come la più grande forza dell’universo, il potere che ci unisce al cosmo. Oggi conosciamo quel potere col nome di “preghiera”. Parlando della preghiera, San Francesco disse semplicemente: “Il risultato della preghiera è la vita”. La preghiera ci dà vita, egli affermava, perché “ irriga la terra e il cuore”.

La conoscenza è il ponte che ci unisce a tutti quelli che hanno vissuto prima di noi. Civiltà dopo civiltà, vita dopo vita, le storie personali di ciascuno confluiscono nella storia collettiva dell’umanità. Tuttavia, a prescindere dal livello di conservazione delle informazioni tramandateci dal passato, le parole di quelle storie si limitano a restare dei semplici “dati” finché noi non riusciamo a dotarle di significato. Infatti, è proprio il modo in cui applichiamo nella vita quelle conoscenze antiche, a trasformarsi in saggezza nel presente.

Per migliaia di anni, ad esempio, i nostri predecessori ci hanno tramandato la conoscenza della preghiera, del perché funziona e dell’uso che possiamo farne. I nostri avi hanno affidato a templi imponenti e a tombe nascoste la potente forma di conoscenza insita nella preghiera, grazie a linguaggi e costumi che hanno subito ben pochi mutamenti nel corso degli ultimi cinquemila anni. Ma il segreto non si cela nelle parole che compongono le preghiere. Proprio come la portata di un programma informatico va al di là del linguaggio in cui è scritto, anche noi dobbiamo cercare una dimensione più profonda nella preghiera, per comprendere il reale potere che ci attende in essa, quando vi ricorriamo. […].

Per scatenare quelle che San Francesco aveva definito come le “forze meravigliose e selvagge” che risiedono in noi e per trovare le giuste condizioni in cui il desiderio più profondo del nostro cuore possa diventare realtà, dobbiamo comprendere il rapporto che intratteniamo con noi stessi, con il mondo e con Dio. La conoscenza necessaria per farlo ci è data dalle parole che ci giungono dal passato. Nella sua opera Il Profeta, Kahlil Gibran ci ricorda che nessuno può insegnarci cose che già sappiamo. Egli afferma: ”Nessuno può rivelarvi ciò che sonnecchia nell’alba della vostra conoscenza”. È molto sensato ritenere che, racchiuso in noi, esista già un potere che ci consente di comunicare con la forza che determina la nostra esistenza! Per fare questo, tuttavia, dobbiamo scoprire chi siamo veramente. […]

Per quanto molteplici culture e stili di vita possano apparire superficialmente diversi, nel profondo siamo tutti alla ricerca delle stesse cose: un lembo di terra da chiamare casa, una soluzione per provvedere ai bisogni della famiglia e un futuro migliore per noi e per i nostri figli. Vi sono anche altre due domande che persone di tutte le culture mi pongono spesso, direttamente o attraverso i traduttori. La prima è semplicemente questa: “Cosa sta succedendo al nostro mondo?”. La seconda è: “Cosa possiamo fare per migliorare le cose?”. La risposta a entrambi i quesiti sembra essere imbevuta di un’unica consapevolezza, che si rifà alla visione moderna della preghiera e, nel contempo, alle più antiche e rispettate tradizioni spirituali del passato.

Le informazioni e la comunicazione

Le riflessioni riportate in questo articolo sono trasferibili anche ai contesti sociali nei quali viviamo costantemente: famiglia, lavoro, gruppi sportivi e di qualsiasi altro genere. Inconsciamente si dà per scontato che la lingua comune (italiano, nel nostro caso) sia sufficiente per comprendersi. Spesso non è così.

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Estratto da “ I quaderni dell’Università del volontariato “
Le organizzazioni di volontariato alla luce delle teorie sui gruppi  – Cap. 3.2. pag. 22   Allegato a: V dossier – Rivista periodica dei Centri di Servizio per il volontariato di Marche, Messina e Milano – dic. 2013 anno 4 – numero 2.

 

La comunicazione è qualsiasi operazione che ponga in relazione dei soggetti umani e che consista nel trasmettere una conoscenza, un’informazione, un’emozione; più precisamente è un rapporto interumano, un «contatto» avente come scopo quello di fare partecipi gli individui appartenenti a quel gruppo della conoscenza o presa di coscienza di qualche cosa, attraverso uno scambio di informazioni (1). È ovvio che fra i componenti di un gruppo ogni scambio di informazione implica anche scambio di significati, che dipendono dalle epistemologie di ciascun componente e del gruppo nel suo insieme. Vale la pena ricordare quanto afferma Bateson: «Vedete, io non penso che un’azione o una parola siano una definizione sufficiente di se stesse; credo invece che un’azione o la targhetta posta su un’esperienza debbano essere sempre viste, come si dice, in un contesto. E il contesto di ciascuna azione è formato dall’intera rete dell’epistemologia e dallo stato di tutti i sistemi implicati, con la storia che ha portato a questo stato. Ciò che noi crediamo di essere dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del mondo intorno a noi» (Bateson, Dove gli angeli esitano 1990, p.266).

Ogni persona vive una serie di esperienze e raccoglie, attraverso i suoi canali percettivi, una infinità di osservazioni; tra tutte queste ne seleziona alcune, che poi trasforma a partire da una serie di variabili sia personali sia di contesto. Queste vengono poi trasformate in descrizioni, cioè vengono tradotte in un «linguaggio» che le rende comprensibili anche ad altri, che a loro volta trasformano in idee proprie quelle determinate esperienze.

Risulta chiaro, da questa descrizione molto sommaria, come il passaggio di informazioni comporti continui aggiustamenti dei messaggi e continue trasformazioni; si pone allora una domanda fondamentale per il lavoro di una organizzazione: quali informazioni possono essere utili e come possono costituire un bagaglio comune per i componenti del gruppo di lavoro? Al di là del modello circolare in cui tutti hanno a disposizione tutte le informazioni, modello ideale e assolutamente impercorribile oltre che probabilmente dannoso, è possibile tentare una risposta attraverso il concetto di “unità informativa”. Le informazioni a disposizione di ogni componente vengono selezionate in base alla loro significatività in relazione agli obiettivi e ai contenuti del lavoro dell’associazione nel suo complesso e in quel momento particolare; è necessario un chiarimento continuo su questo livello metodologico, così da consentire a ciascuno di avere a disposizione un filtro il più possibile comune e condiviso. Questo procedimento non elimina comunque il problema dei filtri personali, nel modo di leggere e descrivere la realtà, ma consente uno scarto minore almeno rispetto alle variabili esplicitabili. Dopo questa operazione preliminare, le informazioni vengono messe in comune ed elaborate alla luce di quelle degli altri sino ad arrivare a costituire un bagaglio unico. Sempre Miller, tra le sue ipotesi, sostiene che: «Quanto maggiore è l’interazione tra due sistemi (o tra componenti di uno stesso sistema(2)), tanto più simile diviene la distribuzione dell’informazione comune» (Miller 1986, p.267). Si può quindi supporre che questo sia un processo auto rinforzantesi; aumentandolo scambio di informazioni aumenta la capacità interna del sistema di distribuire le stesse fra i membri, potenziando le modalità di flusso delle comunicazioni. Sono cioè unità informative tutte quelle informazioni, ad ogni livello, comuni e condivise che possono apportare un mutamento all’operatività. A questo punto ogni membro ha a disposizione ulteriori elementi per poter operare, ed in base a questi e alle esperienze successive acquisirà nuove informazioni che andranno a formare successivamente una nuova unità informativa, e così di seguito.

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(1) Il concetto di informazione non coincide con quello di significato. Significato è il valore che ogni informazione assume per il sistema che la elabora: esso comporta un cambiamento in quei processi del sistema attivati dall’informazione, che spesso risultano da associazioni stabilite nella precedente esperienza con quello stesso significato. Miller, definisce l’informazione come «il grado di libertà esistente, in una data situazione, di scegliere tra segnali, simboli, messaggi o configurazioni che debbono essere trasmessi» (Miller, James G. Teoria generale dei sistemi viventi. Milano: Franco Angeli, 1986.).

(2) Sistema = gruppo.

http://www.csvlombardia.it/wp-content/uploads/2019/02/Udv_La-gestione-dei-gruppi.pdf