Il problema dell’interiorità

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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SEGUE DA PARTE PRIMA

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?

Questo nugolo di domande, a cui immagino se ne possano aggiungere altre, rimanda al più grande problema che in questo momento storico incombe su noi postmoderni occidentali. Le epoche passate avevano problemi per lo più legati alla vita fisica come la fame, il freddo, le epidemie, le guerre, oppure legati alla vita sociale come l’acquisizione dei diritti politici, la libertà di stampa, la libertà di religione, l’uguaglianza dei sessi. Gli esseri umani del passato avevano problemi che noi in buona parte abbiamo risolto, visto che mediamente godiamo di sicurezza fisica e di spazi di libertà come mai prima d’ora nella storia. Tuttavia sentiamo che c’è qualcosa che non va. Qual è dunque il nostro problema più grande? Esso riguarda quella dimensione che in precedenza ho chiamato interiorità e consiste nella gestione di questa energia libera dentro di noi, che, se non è gestita o è gestita male, provoca malessere: il quale si manifesta o rimanendo al nostro interno e facendo male a noi stessi, quindi come depressione; oppure uscendo all’esterno e facendo male agli altri, quindi come aggressione, anzitutto nella forma potenziale detta aggressività.

La nostra energia libera ha bisogno di direzione, prospettiva, senso, ma da sola il più delle volte non riesce a trovarli. Per questo nel passato fiorivano le religioni e le ideologie politiche, e sempre per questo ai nostri giorni fiorisce più potente che mai l’industria del cosiddetto intrattenimento, che intrattiene la nostra energia libera alla ricerca di una direzione e che da sola non sa dove trovarla. I sempre più pervasivi mezzi di comunicazione di cui dispone tale industria nutrono e guidano la nostra energia libera che così acquista una direzione, il nostro vuoto interiore si riempie, la nostra solitudine svanisce. Peccato, però, che la direzione venga a coincidere con il consumo, il vuoto sia riempito dalle chiacchiere, la compagnia ci sia offerta da una serie di volti sullo schermo che in quanto meri fantasmi mentali lasciano più soli di prima. E l’intrattenimento non è che un’altra forma, la più sofisticata, della catena che ci tiene o trattiene in vita facendoci prigionieri.

In realtà, il più efficace intrattenimento che la nostra energia libera possa incontrare e di cui si possa nutrire è la bellezza del bene e della comunione umana. Più di ogni fiction e di ogni social, la realtà ideale e reale del bene condiviso è tale da riempire di senso la vita, e dico senso nella triplice valenza del termine: significato, sensazione, direzione. La bellezza del bene condiviso non si limita a intrattenere, ma, molto più profondamente, arriva a contenere la nostra energia interiore. La bellezza del bene condiviso non è un intrattenitore, è un grande contenitore. Possiamo dire di essa quanto il Nuovo Testamento dice di Dio, cioè che in lui noi «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo *».

Di sicuro infatti, quando una vita giunge al culmine della fioritura, questo avviene perché avverte di vivere, di muoversi e di esistere nell’amore e come amore, cioè precisamente nella bellezza del bene condiviso, donato e ricevuto, nella sua piena fioritura.

 

* Atti degli apostoli

Cos’è una teoria?

Estratto da “La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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Parte prima

Che cos’è una teoria? Il termine deriva dal greco antico e vuol dire «visione», ha la stessa radice di teatro e lo stesso significato di idea, che a sua volta letteralmente significa «visione». In particolare teoria significa «visione d’insieme»: vedo un dato, per esempio un essere umano; poi ne vedo un altro, per esempio un cranio di centomila anni fa; poi un altro ancora, per esempio lo scheletro di un ominide di un milione di anni fa; li collego cercando una spiegazione unitaria e ottengo una teoria, in questo caso la teoria dell’evoluzione. Dove nasce la teoria? Non nel laboratorio, ma nella mente. Ebbene, qual è la teoria nata nella mia mente che intendo presentare in queste pagine sottoponendola alla verifica sperimentale?

La mia teoria
Espongo la mia teoria in un mondo come quello meglio della rabbia, la correttezza meglio della corruzione. Sembrano ovvietà e forse in teoria lo sono, però nella pratica quotidiana, dove spesso imperversano malvagità, disonestà, menzogna, rabbia, corruzione, non lo sono per nulla. Ma in che senso dico «meglio»? In base a un criterio fisico: la vita. Più precisamente, il mio criterio è la vita umana nella completezza delle sue dimensioni che riguardano il corpo, la psiche e lo spirito, intendendo con spirito la facoltà che ci permette talora di essere liberi (cioè consapevoli, creativi, responsabili). La virtù è quanto ci consente di praticare l’igiene della nostra interiorità e così di mantenerla in salute, evitando che l’accumulo della sporcizia produca infezioni interiori paragonabili alle carie che perforano lo smalto dei denti, o peggio alle cellule impazzite dei tumori. La virtù è il più efficace sistema immunitario contro i numerosi agenti patogeni che minacciano la salute della nostra interiorità. È quella preziosa energia interiore difficilmente denominabile ma che fa della nostra vita un’esistenza umana, uno stare al mondo umanamente degno. La mia profonda convinzione è che, per far fiorire la nostra vita a tutti i suoi livelli, la strada più efficace sia la virtù, da intendersi secondo le molteplici declinazioni su cui mi soffermerò in queste pagine. È fondata questa teoria? È sensato parlare di un’etica per vivere bene? Di un’etica per non ammalarsi o per guarire? Esiste veramente un potere igienico e terapeutico della virtù? E se sì, come si esercita in concreto? Rispondere a queste domande costituisce l’esperimento che intendo condurre.

Un nugolo di domande
Sono consapevole delle perplessità che la mia teoria può suscitare a causa del fatto che il concetto di virtù, e più ancora quello di bene, sono ai nostri giorni oggetto di innumerevoli controversie. A dire il vero già molti secoli fa Platone notava che sul bene le idee erano alquanto confuse: «Nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà». Noi oggi però non solo vediamo a stento l’Idea del Bene, ma corriamo il rischio di non vederla per nulla. Per questo ognuno di noi, appena sente parlare di bene e di virtù, non può evitare il sorgere di una serie di domande che lo trasportano in uno scivoloso labirinto concettuale. Le prime riguardano il bene e la virtù dal punto di vista oggettivo:
Esiste il bene in sé? E se sì, cos’è? Oppure dicendo bene ci si riferisce a una dimensione inevitabilmente soggettiva e come tale relativa? E che cos’è, di contro, il male? Esiste il male in sé? Oppure il cosiddetto male dipende ogni volta dalla condizione del soggetto e dalle circostanze, così da risultare anch’esso inevitabilmente relativo? Si può, in altri termini, parlare di «bene assoluto» e di «male assoluto», o tali espressioni sono solo esagerazioni retoriche?
Esiste un bene che sia tale veramente per tutti e che la tradizione chiama «bene comune»? Oppure il bene di alcuni è sempre necessariamente il male di altri, come avviene in natura dove il leone raggiunge il suo bene e quello dei suoi piccoli divorando la gazzella e i suoi piccoli? Come stanno le cose tra gli esseri umani? Anche nel mondo umano il bene di alcuni è necessariamente il male di altri, oppure è possibile almeno in parte superare la legge mors tua vita mea e instaurare uno stato di cooperazione sociale? *
Perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male? Il male talora non può a sua volta produrre bene? E il bene, troppo bene, non finisce a volte per produrre del male?
Che rapporto c’è tra bene e male, e quindi tra virtù e vizi? Si tratta di un rapporto dualistico, che per il darsi del bene e della virtù esclude la presenza del male e del vizio? Oppure si tratta di un rapporto complementare, che per ildarsi del bene e della virtù include la presenza del male e del vizio?

Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù:
* Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene?
* E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita?
* È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita?
* Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?

Saggezza moderna da antichi racconti

Estratto da “I desideri dell’anima” di Clarissa Pinkola Estés – Ed Frassinelli

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Le favole finiscono dopo dieci pagine, la nostra vita no. Noi siamo una collana di parecchi volumi. Nella nostra esistenza, se un episodio è una catastrofe, pure ci aspetta un altro episodio, e poi un altro ancora. Si presentano sempre altre occasioni per rimediare, per forgiare la nostra vita nel modo che ci meritiamo di viverla. Non perdete tempo a rimuginare su un fallimento: è un maestro migliore del successo. Ascoltate, imparate, andate avanti. È quel che facciamo con questo racconto. Ascoltiamo infatti l’antico messaggio: apprendiamo i modelli deterioranti per andare avanti con al forza di chi sa intuire le trappole, le gabbie e le esche prima di finirci sopra, o dentro”. *

Si potrebbe pensare che la lettura e l’ascolto delle fiabe si limitino al trasferimento del loro contenuto a cuori e anime giovani o senza età; ma in realtà si tratta di un processo ben più complesso. L’ascolto e la memorizzazione delle fiabe hanno un effetto più simile a quello dell’accensione in noi di una sorta di “interruttore” elettrico. Una volta attivate, le fiabe evocano dalla psiche un sottotesto più profondo, una sagacia che, per tramite dell’inconscio collettivo, giunse in modo innato prima, durante o subito dopo che la prima delicata brezza soffiasse sul corpicino del neonato ancor umido, appena estratto dal grembo materno – del momento esatto non abbiamo coscienza. Sappiamo soltanto che una tale, profonda conoscenza delle essenze contenute nelle storie, seppur non fatta di materia densa, solida, può essere avvertita in modo palpabile dal cuore, dalla mente e dall’anima di chi le ascolta.

Quando la gente ascolta le storie delle fiabe, ne viene encantada, incantata. Benché questo vocabolo sia oggi fin troppo abusato, il suo senso originario rimane puro: dal latino in-cantare, cantare su o a proposito di… al fine di creare. È correlato alla parola canto. Parla di entrare in un terreno misterioso con intatta finezza d’intuito. L’esatto opposto che entrarvi con la mente bloccata da un’ossessione, per esempio, e quindi non più padrona della propria perspicacia.

Quando la gente ascolta le fiabe, non è tanto che le “ascolti”: sarebbe meglio dire che le sta ricordando; sta ricordando delle idee innate. Quando una persona ascolta le storie delle fiabe, qualcosa le rintocca dentro. Un potente viento dulce, il dolce vento del respiro umano che veicola la storia, rivela la vera densità espressiva ed emotiva, la soulfulness o “pienezza d’anima” sottesa a quella storia. Tra alcuni popoli inuit questa qualità è detta anerca: il potere dell’essenza della poesia, amplificato dal suo essere esternata dal respiro del narratore.

Perché da innumerevoli generazioni non ci stanchiamo di raccontare e ascoltare sempre di nuovo queste storie? Perché esse sono come piccoli generatori che ci ricordano i concetti essenziali della vita dell’anima – quelli che spesso ci dimentichiamo temporaneamente, o con i quali smarriamo il contatto talvolta quasi per tutta la vita.

Una fiaba invita la psiche a sognare su qualcosa che sembra familiare, e che spesso tuttavia affonda le sue origini in un tempo remotissimo. Penetrando nel mondo delle fiabe, gli ascoltatori ne re-visionano i significati, “rileggendo con l’intelligenza del cuore” quelle cruciali guide metaforiche che ci ammaestrano sulla vita dell’anima.

* Clarissa Pinkola Estés “Donne che corrono coi lupi”  ed. Frassinelli

Atomizzazione della società

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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segue da PARTE PRIMA

La scomparsa dei simboli rimanda alla crescente atomizzazione della socità. Al contempo, la società diventa sempre più narcisistica. Il processo di interiorizzazione narcisistica sviluppa un’ostilità nei confronti della forma: le forme oggettive vengono scartate a vantaggio di circostanze soggettive. I riti si sottraggono all’interiorità narcisistica e la libido dell’Io non vi si può agganciare dal momento che, se si concede loro, deve prescindere da se stessa. I riti producono una distanza da sé, una trascendenza da sé. Essi depsicologizzano, deinterioirzzano chi li inscena.

Nell’epoca attuale la percezione simbolica scompare sempre più a favore di una percezione seriale incapace di esperire la durata. La percezione seriale, quale presa di coscienza avanzata del nuovo, non indugia. Anzi, si affretta da un’informazione all’altra, da un evento all’altro, da una sensazione all’altra senza mai giungere a una conclusione. Oggi le serie sono così amate probabilmente perchè corrispondono all’abitudine della percezione seriale che, sul piano del consumo mediale, conduce al binge watching, al guardare fino a cadere in coma.  Mentre la percezione simbolica è intensiva, la percezione seriale è estensiva, e per via della sua estensità porta con sé un’attenzione piatta. L’intensità, al giorno d’oggi, cede ovunque il passo all’estensità. La comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni.

[…] Il costante update, che è arrivato a riguardare tutti gli ambiti della vita, non consente alcuna durata, alcuna conclusione. La coazione permanente a produrre conduce a un disaccasamento  (Enthausung), che rende la vita più contingente, effimera e incostante, mentre l’abitare necessita di durata.

Il disturbo da deficit di attenzione scaturisce da un incremento patologico della percezione seriale. La percezione non conosce quiete, disimpara a indugiare. La profonda attenzione, in quanto tecnica culturale, si costruisce proprio a partire dalle pratiche rituali e religiose. Non è un caso che la parola religione derivi da relegere, prendere nota. Ogni pratica religiosa è un esercizio d’attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. Secondo Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega – produce se stessa senza sosta.

Oggigiorno molte forme di ripetizione come l’imparare a memoria vengono tacciate di opprimere la creatività, l’innovazione ecc. Imparare a memoria in francese si dice apprendre par coeur. È evidente che le ripetizioni, da sole, arrivano al cuore. Alla luce del crescente disturbo da deficit di attenzione, non molto tempo fa è stata proposta l’introduzione di una nuova materia scolastica, “Studi rituali”, per praticare nuovamente la ripetitività dei riti in forma di tecnica culturale. Le ripetizioni stabilizzano e acuiscono l’attenzione.

La ripetizione è un tratto essenziale dei riti. Si differenzia dalla routine in quanto capace di generare una particolare intensità. Da dove viene l’intensità che contraddistingue la ripetizione e fa sì che essa non diventi routine?  La ripetizione e il ricordo rappresentano per Kierkegaard il medesimo movimento, ma in opposte direzioni. Ciò che ci si ricorda è passato ed è “ripetuto all’indietro”, mentre la ripetizione autentica “ricorda il suo oggetto in avanti”.  La ripetizione come riconoscimento è quindi una forma compattante: il passato e il futuro vengono compattati in un presente vivo. In quanto tale, essa stimola la durata e l’intensità, fa sì che il tempo indugi.

Kierkegaard contrappone la ripetizione sia alla speranza, sia al ricordo: La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perchè non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso.

Secondo Kiekegaard “è solo il nuovo ad annoiare”, il vecchio “è pane quotidiano che nutre in abbondanza”. Rende felici: “Felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità”.

Il pane quotidiano non stimola, gli stimoli sbiadiscono in fretta. La ripetizione scopre l’intensità in ciò che è privo di stimoli, nel non appariscente, nell’insipido. Chi invece si aspetta sempre qualcosa di nuovo, di eccitante, perde di vista ciò che è già lì. Il senso, quindi la via, è reperibile. Non ci si stanca mai della via:

Io posso ripete solo ciò che è del tutto privo di eventi, sebbene qualcosa mi abbia reso felice con la coda dell’occhio (la luce del giorno, o l’imbrunire), già un tramonto è un evento e come tale non ripetibile; non posso neppure ripetere una luce particolare, o un imbrunire, bensì solo una via (e peraltro devo essere pronto a tutte le pietre, anche quelle nuove.  P. Handke.

A caccia di nuovi stimoli, eccitazioni ed esperienze oggi perdiamo la capacità di ripetere. […]  Il vecchio, ciò che è stato, che permette una ripetizione appagante, viene rimosso in quanto si contrappone alla logica proliferante della produzione. Le ripetizioni tuttavia stabilizzano la vita, il loro tratto essenziale è l’accasamento.

Il nuovo si appiattisce rapidamente diventando routine, è una merce che si consuma e riaccende il bisogno di nuovo. La coazione a dover respingere tutto ciò che è routine produce altra routine. Nel nuovo è quindi insita una stuttura temporale che sbiadisce presto in routine, senza consentire alcuna ripetizione appagante.  La coazione a produrre in quanto coazione verso il nuovo non fa perciò che incrementare il pantano della routine. Per sfuggirle, per sfuggire al vuoto, ecco che consumiamo ancora più cose nuove, nuovi stimoli ed esperienze. È proprio il senso di vuoto a trainare la comunicazione e il consumo. Il “vivere intenso” come da pubblicità […] non è altro che un consumo intenso. Dinanzi all’illusione del “vivere intenso” bisogna riflettere su un’altra modalità di vita, più intensa dell’incessante consumare e comunicare.

I riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di un ritmo comune […]. Senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati. […] La risonanza non è un’eco del sé, le è anzi insita la dimensione dell’Altro, essa significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza: la comunicazione digitale è costituita da camere di riverbero nelle quali si sente soprattutto la propria voce mentre si parla. I like, i friend e i follower non preparano alcun terreno risonante, rafforzano solo l’eco del sé.

I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei. Gli ordini e i valori in vigore in una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati. Vengono inscritti nel corpo, incorporati, cioè interiorizzati mediante il corpo. Così i riti creano una conoscenza e una memoria incarnate, un’identità incarnata, un legame incarnato. […] La digitalizzazione, da questo punto di vista, indebolisce il legame comunitario poichè da essa emana un effetto decorporeizzante: la comunicazione digitale è  una comunicazione decorporeizzata.

Nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti, ma il loro soggetto non è l’individuo per sé, isolato. Nel rito funebre, il lutto rappresenta un sentimento oggettivo, collettivo, è impersonale. I sentimenti collettivi non hanno nulla a che vedere con la psicologia individuale. Nel rito funebre, è la comunità il vero soggetto del lutto: dinanzi all’esperienza della perdita, è essa che se lo impone, e questi sentimenti collettivi la consolidano. La crescente atomizzazione della socità riguarda anche ilsuo equilibrio emotivo. I sentimenti comunitari si formano sempre più di rado. In compenso, impulsi e ardori passeggeri, caratteristici di un individuo isolato, imperversano. Al contrario degli ardori e degli istinti, i sentimenti possono essere comunitari. La comunicazione digitale è un gran parte guidata dagli impulsi, ne favorisce l’immediato sgombero. Twitter si rileva un medium degli impulsi, e la politica che si basa su di esso è una politica impulsiva: la politia è ragione e mediazione, ma la ragione, che possiede una grande intensità temporale, oggi cede sempre più il passo a impulsi momentanei.

[…] Oggi la comunicazione digitale si orienta sempre più verso una comunicazione senza comunità. […]  La comunicazione senza comunità può essere accelerata, in quanto è additiva. I riti sono invece processi narrativi che non consentono alcuna accelerazione.  I simboli stanno fermi. Le informazioni no: esse esistono se circolano. Il silenzio significa solo arresto della comunicazione, non produce nulla. […] Più informazioni, più comuncazione promettono più produzione, così la coazione a produrre si esprime come coazione a comunicare. […]

La depressione non si verifica in una socità caratterizzata dai riti, nellaquale l’anima viene completamente assorbita, e addirittura svuotata, dalle forme rituali. I riti riassumono il mondo, producono un forte rapporto col mondo, mentre alla base della depressione c’è una smodata autoreferenzialità. Del tutto incapaci di uscire da se stessi e di superarsi proiettandosi nel mondo, ci si incapsula. Il mondo scompare. Si ruota su se stessi con un tormentoso senso di vuoto. I riti invece alleviano l’Io dal fardello del sé, lo depsicologizzzano e deinteriorizzano.

 

 

Riti, simboli e coazione a produrre

Estratto da “ La scomparsa dei riti” Byung-Chul Han – Ed. Nottetempo

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Parte prima

I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis). L’ospite spezza a metà una tavoletta d’argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. Questa è una forma particolare di ripetizione:

Riconoscere non è vedere di nuovo qualcosa. I riconoscimenti non sono una serie di incontri, ma riconoscere significa piuttosto: conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’“accasamento” umano – una parola di Hegel, che voglio usare in questo caso – il fatto che ogni riconoscimento sia sciolto dalla contingenza della prima presa di conoscenza e sia elevato all’idealità. Noi tutti lo sappiamo assai bene. Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscere vede il permanente nel fuggevole (H.G. Gadamer, L’attualità del bello – Marietti ed. 1988).

La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente. I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano. Nel romanzo La cittadella, Antoine de Saint-Exupéry descrive i riti proprio come tecniche temporali dell’accasamento:

E i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio. Perché è bene che il tempo che passa non dia apparentemente l’impressione di logorarci e disperderci come una manciata di sabbia, ma di perfezionarci. È bene che il tempo sia una costruzione.

Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensì un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile. I riti stabilizzano la vita. Parafrasando Antoine de Saint-Exupéry, potremmo dire che i riti sono nella vita ciò che le cose sono nello spazio.

Per Hannah Arendt è la resistenza delle cose a offrire loro un’“indipendenza dagli uomini” (Vita activa. La condizione umana – Ed Bompiani Milano 2017). Le cose hanno “la funzione di stabilizzare la vita umana”. La loro oggettività sta nel fatto che “gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé”, cioè la loro identità, “riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”. Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza, della loro ripetizione. Rendono, dunque, la vita resistente. L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di più, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile. E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. Lo smartphone non è una cosa che piacerebbe a Hannah Arendt, gli manca proprio quella medesimezza in grado di stabilizzare la vita e non è neanche particolarmente resistente. Si differenzia da cose come un tavolo, che mi affrontano col loro sé. I suoi contenuti mediali che richiamano di continuo la nostra attenzione sono l’esatto contrario del sé. Il suo cambiare rapidamente non consente alcun indugio. L’inquietudine propria di questo tipo di apparecchio lo rende una non-cosa. Inoltre, il suo utilizzo diventa costrittivo, invece da una cosa non dovrebbe scaturire alcuna costrizione. Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose. Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensì usate
– così possono anche invecchiare. In preda alla coazione a produrre ci rapportiamo alle cose e al mondo non come utilizzatori, bensì come consumatori. Di ritorno, le cose e il mondo consumano noi. Il consumo senza scrupoli ci attornia insieme alla sparizione, che destabilizza la vita. Le pratiche rituali fanno sì che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose.

Oggi non consumiamo solo le cose, bensì anche le emozioni di cui si fanno portatrici. Le cose non si possono consumare senza fine, le emozioni sì. Così esse aprono un nuovo, infinito campo di consumo. L’emotivizzazione della merce e l’estetizzazione che l’accompagna sono sottoposte alla coazione a produrre; devono aumentare il consumo e la produzione. Così facendo, l’estetico si fa colonizzare dall’economico. Le emozioni sono più fuggevoli delle cose, per cui non stabilizzano la vita. Inoltre, nel consumare un’emozione non ci si rapporta alle cose, ma solo a se stessi. Si cerca un’autenticità emotiva. In tal modo il consumo dell’emozione rafforza l’autoreferenzialità narcisistica. Il rapporto con il mondo, che le cose dovrebbero garantire, si perde sempre più. Anche i valori fungono oggi da oggetto del consumo individuale, diventano a loro volta merce. Valori come la giustizia, l’umanità o la sostenibilità vengono sfruttati economicamente. “Cambiare il mondo bevendo tè”: ecco lo slogan di un’impresa di commercio equosolidale. Cambiare il mondo mediante il consumo – ovvero: la fine della rivoluzione. Di vegan esistono anche scarpe e vestiti, e chissà, forse arriveranno persino gli smartphone. Il neoliberismo sfrutta la morale da vari aspetti. I valori morali vengono consumati quali tratto distintivo. Vengono registrati sull’ego-account, il che accresce l’autostima. Essi fanno aumentare un narcisistico rispetto di sé. Tramite i valori non si fa riferimento alla comunità, bensì al proprio ego. Con il simbolo, con la tessera hospitalis, gli ospiti sigillano il loro legame. La parola symbolon è inserita nel medesimo orizzonte di significato della relazione, della totalità e della salvezza. Secondo il mito che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, originariamente l’uomo era una creatura sferica con due volti e quattro gambe. Visto che era troppo esuberante, Zeus lo tagliò in due per indebolirlo.

Da allora l’uomo è un symbolon che si strugge per l’altra metà, per una totalità salvifica. Così, in greco “mettere insieme” si dice symballein. I riti sono, in questa accezione, anche una pratica simbolica, una pratica del symballein, in quanto riuniscono le persone e creano un legame, una totalità, una comunità. Oggi il simbolico inteso come medium della comunità scompare a vista d’occhio. La desimbolizzazione e la deritualizzazione si presuppongono a vicenda. L’antropologa sociale Mary Douglas constata con stupore:

Uno dei problemi piú gravi dei nostri giorni è la sfiducia nei simboli. […] se si trattasse soltanto della nostra frammentazione in piccoli gruppi, ciascuno legato alle sue forme simboliche, la situazione sarebbe facile da capire. Ma esiste un fenomeno ben piú misterioso: un ampio ed esplicito rifiuto dei rituali in quanto tali. “Rituale” è diventato una brutta parola, equivalente a conformismo vuoto: assistiamo a una rivolta contro il formalismo, anzi, contro la forma. 

Parte seconda