Delicati equilibri

Estratto da: “Il tempo delle emozioni” di Aldo Carotenuto – Ed. Bompiani

————————————————————————

La capacità di riflettere sui personali stati affettivi ed emozionali risulta essere la colonna portante affinché ogni individuo sappia ascoltare la voce della propria anima ed esprimere al meglio la sua autenticità. Essere se stessi, e soprattutto percepire una aderenza psicologica tra il Sé e l’Io, ossia tra il mondo interiore e la percezione che ognuno ha di esso, rappresenta un passo evolutivo fondamentale per la crescita psichica dell’essere umano.
Conoscere la propria verità interiore rappresenta il traguardo esistenziale da raggiungere, perché altrimenti l’uomo rimane vittima e preda delle scelte altrui, delle tendenze collettive e omologanti che regnano nella realtà circostante.
Porsi in una posizione di introversione rispetto alla propria realtà inconscia, laddove sono custoditi i segreti e le indicibili fantasie, rappresenta il gradino fondamentale da percorrere, al fine di iniziare una discesa sempre più profonda e dolorosa negli Inferi abissali.
In questa discesa di auto-conoscenza sono le emozioni, le guide polari in grado di indicarci la strada migliore da seguire, quella più irta e travagliata, ma sicuramente più feconda per l’arricchimento e la maturazione della propria personalità. […]

Fattore basilare nella costruzione della propria personalità risulta essere la presa di coscienza, da parte del singolo individuo, delle sfumature emotive che colpiscono la sua anima. Come dire, sapere di avere un sentimento rappresenta la condizione prioritaria affinché la scintilla emotiva, che sorge nel profondo della psiche, possa dar luogo a una luce immensa in grado di investire l’intera personalità dell’individuo, senza quindi rimanere confinata nell’ambito della sua nascita.

L’effetto completo e duraturo dei sentimenti richiede la coscienza, poiché è soltanto con l’avvento di un senso di sé che l’individuo viene a conoscenza dei sentimenti che ha” (Damasio – Emozione e Coscienza, Adelphi).

La sfera emotiva appartiene alla dimensione più arcaica della nostra psiche, al di là di ogni forma di consapevolezza, giacché essa si sostanzia di elementi che nella storia evolutiva si collocano molto prima della coscienza; una sorta di mostruosità. Quindi alberga nel nostro mondo emozionale, “mettendone ancora una volta in risalto la portata primordiale” (Minkowsky – Trattato di psicopatologia, Feltrinelli), dove gli impulsi e i desideri più sopiti dominano lo scenario inconscio.
Tale presupposto è quanto mai evidente nel momento in cui avvertiamo uno stato d’animo indefinibile che ci avvolge totalmente, facendoci sentire inquieti o a disagio, titubanti o increduli, privi di un senso stabile del sé e di una certezza interiore che ci consentano di conferire un significato agli eventi esistenziali. Trasportati su un terreno emozionale dove il “perturbante” attanaglia la nostra anima, ognuno di noi in seguito tende a ristabilire un certo equilibrio psichico attraverso l’intervento degli strumenti della coscienza, con l’obiettivo di rappresentarsi mentalmente il vissuto emotivo che dilaga nella propria sfera intima.
Elaborare psicologicamente le vicissitudini del nostro mondo interiore significa attivare “uno stato del sentire reso conscio, cioè noto all’organismo soggetto all’emozione e al sentimento” (Damasio), in modo da far luce sull’oscurità del proprio labirinto interiore. La scia psichica che le emozioni lasciano dietro di sé diventa, dunque, la strada da percorrere in modo da poter rintracciare in essa i tasselli basilari, quegli stessi che sveleranno aspetti della personalità a noi in precedenza sconosciuti. […]

La presenza di connessioni tra il sistema emozionale e quello legato al pensiero vigile e cosciente è quanto mai evidente nel momento in cui ognuno di noi può trovarsi a esperire dei segnali affettivi molto intensi e disturbanti, al punto da riuscire a sabotare le linearità di un nostro pensiero corrente.
Una sofferenza psicologica, un dolore incontenibile, vissuti di perdita, sono stati d’animo che possono concorrere a offuscare la nostra capacità intellettuale di porci nei confronti della realtà, perché la loro energia intrinseca invade, allaga la processualità operativa, e quindi risulta non essere più contenuta e controllata dagli strumenti del pensiero.
Il sistema operativo dell’uomo, quello razionale, logico, deputato alla progettualità e all’intervento finalizzato, mai potrebbe espletare il suo funzionamento in modo efficiente senza l’intervento e la collaborazione delle emozioni, perché sono queste le bussole psichiche che orientano le nostre scelte, che danno l’avvio al nostro sentire, al nostro “essere” anzi. Esse rappresentano l’energia psichica fondamentale per l’esistenza, il motore primario che ci spinge ad agire e a comportarci in determinati modi, per cui, anziché essere uno scomodo compagno di viaggio come il passato positivista voleva, le emozioni possono considerarsi come una “manifestazione palpabile della logica della sopravvivenza” (Damasio).
Gli insegnamenti emozionali, che la vita ci permette di acquisire, consentono di restringere il vasto ventaglio di opportunità che si aprono dinanzi a noi, eliminando delle opzioni e, al contempo, mettendone in evidenza delle altri che appaiono, alla luce dei nostri interessi, più significative e di valore. Essi ci sostengono nell’affrontare situazioni e compiti troppo difficili perché possano essere unicamente affidati all’intelletto e quindi

quando è il momento che decisioni e azioni prendano forma, i sentimenti contano almeno quanto il pensiero razione, e spesso anche di più” (Goleman, Intelligenza Emotiva, Bur-Saggi ).

[…] La vita psichica non può, dunque, essere concepita senza tener conto della fondamentale importanza che le dinamiche affettive rivestono, o meglio senza considerare il privilegiato rapporto di complementarietà che esse instaurano con il pensiero. L’acerrimo e primitivo conflitto tra mente e cuore, che per molto tempo si è risolto unicamente a favore della componente razionale, deve quindi essere inteso sotto un punto di vista relazionale, cercando di trovare il giusto equilibrio tra le due parti.
Equilibrio che non deve pertanto condurre a una scelta aut-aut tra le parti del binomio, ma che deve invece stimolare il nostro interesse a cercare di trovare un punto di contatto tra le due dimensioni, valicando i sentieri divisori che il vecchio paradigma intellettuale propinava alle menti degli uomini. Le anche opinioni dei grandi pensatori del passato sul rapporto tra ragione e sentimento tendevano a valorizzare il dominio del pensiero logico sulla sfera più propriamente emotiva dell’individuo, ovvero la sfera deputata più “debole” e fragile e che, pertanto, doveva essere messa a tacere.[…]

Non ascoltare il prezioso tesoro delle emozioni che ogni essere umano cela nel suo profondo, e nascondersi da esso, significa quindi innalzare delle potenti difese contro tutto quello che potrebbe inficiare l’ordine e il controllo prestabiliti dagli artifici del raziocinio, e ciò comporta inevitabilmente una perdita conoscitiva incolmabile.
Il pensiero che agisce senza realizzare una correlazione dialettica con un background emozionale corre il rischio di diventare arido e sterile, svuotato cioè di quello spessore psicologico e di quel tono direzionale che, dal canto loro, conferiscono qualità e dinamismo a un particolare discorso.
Non esiste conoscenza alcuna che non sia sostenuta da una tensione emotiva capace di accelerare il processo di pensiero, e in grado di orientare le scelte individuali all’interno di un magma aggrovigliato di dati informativi. Nel momento in cui è importante saper discernere tra diverse opportunità che, alla luce della coscienza, potrebbero apparire non troppo diverse tra loro, interviene l’ausilio dell’intuito a innescare dentro di noi un processo psicologico decisionale e semplificativo.

Ogni umano atteggiamento è pensiero, e ogni istante di vita è dettato da un desiderio intimo, da una spirale di emozioni che forniscono l’energia psichica necessaria alla realizzazione dei propositi iniziali posti dal singolo individuo. Occorre dunque prestar voce ai moniti interiori che la sfera emotiva rimanda alla nostra conoscenza, e far tesoro di questa conquista rappresenta un momento importante per la nostra crescita psicologica. La superficie apparentemente omogenea e ordinata della realtà viene stravolta e messa in discussione dalla voce delle emozioni e dei sentimenti che, al di là della semplice fattualità, mirano a cogliere quelle sottili venature impercettibili, ma fondamentali, all’occhio comune. Venature che ci indicano il sentiero da percorrere qualora ci trovassimo dispersi nell’oscurità dell’esistenza, qualora la guida della ragione fosse obnubilata nel segnalarci la riva da raggiungere dove trovare sollievo e riposo. La “bussola” interiore si avvale della capacità di rischiarare la nostra mente nel buio tempestoso che a volte sovrasta il sistema operativo umano, sconvolgendo così le ordinarie funzioni conoscitive. La risonanza emozionale colora i ricordi, scolpisce il presente vivere, dà luce e forza alle visioni del futuro, riempiendo di slanci creativi la vita psichica di ogni individuo che, in assenza di tale humus, finirebbe col cristallizzarsi in un rigido meccanismo mentale. […]

L’equilibrio che si instaura tra le due componenti della psiche, il pensiero e gli affetti, risulta quindi essere alquanto fragile e delicato, pronto a spezzarsi nel momento in cui viene meno l’interscambiabilità e la continuità, elementi che consentono alle ragioni del cuore e a quelle del pensiero di instaurare tra loro un dialogo specificatamente psicologico all’interno di un unico processo evolutivo.
È elevato il potere conoscitivo che le emozioni recano con sé perché esse, nella loro incandescenza e vulnerabilità, ci consentono di cogliere con l’intuizione il senso delle cose, la profondità degli eventi, orientandoci nel caos informazionale che ci circonda.
Le venature emozionali che compongono la nostra vita interiore sono portatrici di conoscenza e trasformazione dal momento che conducono l’essere umano al di là dei suoi confini strettamente individuali, per svelare una dimensione psichica non leggibile con gli usuali strumenti della logica.
È la verità intima e segreta che ogni individuo reca dentro di sé, ma è anche la verità profonda che si cela dietro la superficie apparente della vita che si apre ai nostri occhi: è l’essenza dell’essere.
Attraverso gli occhi dei sentimenti è possibile osservare la nostra esistenza sotto un’ottica particolarmente penetrante, sotto un punto di vista che tende a carpire le radici di ogni umana situazione che si dispiega nei circuiti complessi della realtà, al di là di ogni confine individuale.

Passione e pedagogia della paura

Estratto da “Passione” di Paolo Crepet – Mondadori

——————————————————————————————–

Basta entrare in un supermercato e osservare. Gli scaffali più frequentati sono quelli che “non” contengono qualcosa. Siamo arrivati alla ricerca spasmodica del “senza”, all’epoca della sottrazione rassicurante.
Senza glutine, senza lattosio, senza olio di palma, senza zuccheri aggiunti, senza grassi, senza carbonato di potassio, senza uova, senza glifosfato, senza purine, senza lievito, senza amidi … Genitori, single, anziani, sportivi, evergreen: tutti alla caccia di ciò che non ci deve essere, tutti consolati dalla mancanza e non dalla presenza.
Le allergie si diffondono e, con esse, i timori di qualsiasi epidemia, vera o presunta: l’importante è avere paura. Come se le nostre identità fossero costruite su ciò che temiamo e non più su ciò che amiamo.
I bambini crescono ossessionati dalle paure di genitori e insegnanti, incapaci di difendersi se non aggrappandosi ad adulti psicolabili. Le città si riempiono di parafarmacie, veri e propri mercati aperti spesso 24 ore su 24. Per rincuorare le nostre angosce, distributori di rassicurazioni chimiche o di rimedi “naturali” per ansie, insicurezze, paranoie.
Ogni strillo su qualche attentato alla nostra salute trova immediatamente alloggio nell’infinito repertorio di prodotti placebo pubblicizzati da innumerevoli chat digitali, sequele di messaggini che circolano di giorno e di notte con lo scopo di seminare panico, annientare certezze, vanificare avanzamenti scientifici. La rete moltiplica all’infinito la paura del complotto di qualche multinazionale che vuole imporci l’acquisto di un vaccino con il rischio di far diventare autistici i nostri bambini. Bestemmie scientifiche che hanno però persuaso milioni di cittadini e che ora insidiano pure le decisioni ministeriali. La paranoia funziona perché coltiva un’identità collettiva fondata su pericoli immaginari.
I bambini sono ovviamente le prime, e più facili, vittime di un mondo che trova la propria forza nell’idea del complotto, che inocula il timore che qualsiasi cosa facciamo, mangiamo, beviamo, assumiamo possa esserci dannoso o fatale.
Così si costruisce un mercato parallelo e fiorentissimo, quello della paranoia. Prodotti costosi proprio perché non contengono questo o quell’ingrediente, o perché illudono di provenire da chissà quale “fabbrica sana e naturale”. La parola magica, e assolutamente imbarazzante, è free, libero. Forse è solo una coincidenza, ma in questo temine inglese convivono, più strettamente che nel corrispettivo italiano, due accezioni: ”libero da…” e “libero di…”. Il largo consenso che questo nuovo mercato ha trovato è in parte legato proprio all’idea, illusoria, di essere liberi, non contaminati. […]
È emblematico che, oggi, ci si possa sentire liberi solo “senza” qualcosa. I nostri figli crescono con un’idea bizzarra della libertà: quella che non ti fa scegliere, ma seguire i dettami delle paure. E i sentimenti – ciò che chiamiamo empatia, ovvero fiducia – che fine faranno in un mondo in cui non ci si può più fidare di nessuno?
Recentemente, un’appassionata assessora della giunta comunale di Napoli ha emesso una direttiva che proibisce ai negozianti di esporre in vetrina animali morti, con tanto di multa fino a 500 euro per i non ossequenti. Proibito esporre un agnello o un pollo o un coniglio morti, al massimo possono essere esposte fettine della loro carne. Il motivo addotto per tale direttiva è che i bambini si impressionano a vedere animali morti. Anzi, occorre che la morte tout court sia rimossa dalla loro visione perché quelle bestie fanno parte del loro immaginario, delle loro favole e non devono rientrare in nessuna realtà truculenta.
L’editto, in realtà, convalida un comportamento già presente in molte famiglie: quando il nonno si ammala e muore, quel dolore, quella trasformazione del corpo, quel decadimento fatale, quel lutto devono essere tassativamente esclusi dalla vita di un /a bambino/a che deve vivere in una favola, dove tutto esiste in quanto inventato. Anche il funerale viene bandito dalla sua realtà e immaginazione. Per questi adulti il luogo più adatto dove un /a bambino/a dovrebbe crescere. Una teca, protetto/a da tutto in quanto tutto è potenzialmente contaminante: lo spirito quanto il corpo, il pensiero quanto la carne. L’ideale per molti genitori è far crescere i propri figli in una sorta di reparto di rianimazione, dove anche l’ultimo acaro è stato debellato. Prevale un’idea di assoluto “candore educativo”.
Sono gli stessi adulti a pensare corretto per un bambino passare ore alla playstation con giochi violenti, ma pur sempre virtuali. È la realtà il nemico che vogliono combattere.
Non si tratta soltanto di ipocrisia, ma di una paura introiettata da parte di chi educa e proiettata sui più piccoli. Ci si convince che un bambino debba vivere solo esperienze virtuali in quanto l’adulto di riferimento non è in grado di spiegare cosa significa dolore, pena, passione: una vita anestetizzata è meno faticosa e problematica da spiegare rispetto a quella reale. E la passione diventa così un concetto edulcorato, insapore, idealizzato e irreale.
L’assessora sarà stata mossa a pietà, ma ha dimenticato che un bambino deve vivere nella realtà e che un adulto deve essere capace di tradurle in termini comprensibili, non ingannevoli o censori. […]
Perché ci dobbiamo arrendere a vivere un’esistenza che somiglia a una fiction?
Che cosa ci fa paura? Possibile che il progresso e il benessere abbiano infiacchito l’uomo invece di renderlo più forte e determinato? E se riuscissimo a eliminare tutto ciò che ci fa paura, di che cosa vivremmo? Se uccidiamo tutti i lupi mannari e ne nascondiamo i corpi, vivremo davvero più sani e felici?
E se, infine, dovessimo scoprire che quelle paure altro non sono e non possono essere che grandi metafore della vita, compresi i lati oscuri che non vorremmo vedere? Le favole di Esopo, Andersen, dei fratelli Grimm o di La Fontaine avevano proprio questo di prodigioso: contenevano l’essenza della vita, al lordo del dolore, del terrore, delle nostre infinite debolezze e paure umane, e costruivano anticorpi contro le umane fragilità.
Insomma, la paura come antidoto, protezione. Un bambino che non la conosce crescerà fragile, alla mercé del primo evento luttuoso della sua vita. Ma soprattutto la paura, come dolore, è esperienza fondamentale per capire il senso della nostra esistenza: i nostri limiti, il cambiamento del corpo e l’invecchiamento. Un uomo può dirsi davvero forte soltanto se ha riconosciuto la propria fragilità e dunque la passione che se ne può ricavare.
Invece, molti manifestano il proprio disagio nei confronti di tutto ciò che vivono come difetto. L’imperativo per una certa cultura falsamente edonistica è la perfezione: ossessione curata e protetta dai nuovi dettami della moda. […]
In una società sempre più anziana, molti rincorrono il mito dell’eterna giovinezza che vogliono mostrare nel corpo, nel modo di atteggiarsi.
Abbiamo paura di tutto, compresa la nostra esistenza, che vorremmo da un lato prolungare all’infinito, dall’altro preservare da ogni aspetto doloroso: dalla morte di un parente o un amico al parto che deve essere solo cesareo, fino all’anestetizzazione della vita compiuta e proposta ai nostri bambini. I piccoli non devono cadere più dalla bicicletta né correre il rischio di ferirsi giocando.
La naturalezza della vita abolita a favore di un’esistenza sterilizzata e blindata, dove la parola “passione” è depotenziata a sentimento superficiale, a un inciampo troppo realistico. Invece la passione unisce e completa, la paura isola e amputa il tessuto sociale.

Con te e senza di te

Conferenza libera

Dinamiche palesi e nascoste agiscono all’interno di ogni relazione di coppia: due mondi diversi che cercano una dimensione comune vivendo l’esperienza della vita insieme. Infinite variabili mettono costantemente alla prova la sua stabilità e ognuna di esse ha un peso diverso per ciascun partner.

È quindi utile, se non importante, individuare quali sono le componenti che trasformano un’amicizia in qualcosa di più, comprenderne i movimenti e i sogni che vi sono collegati.

Cosa significa “essere coppia”?

Questo incontro è dedicato a chi è in coppia e a chi non lo è, per una visione che può aprire nuove possibilità per ciascuno.

“Nec tecum possum vivere, nec sine te”

  Marziale – Epigrammi Libro XII

 

Informazioni e contatti

 

L’errore di concepire la vita senza fatica e sofferenza

Estratto da “Da Avere a Essere”  di Erich Fromm – Oscar Mondadori

—————————————————————————————–

Altro impedimento nell’apprendimento dell’arte di vivere è la presunzione che sia possibile una vita senza fatica e sofferenza. La gente è convinta che tutto – persino il compito più arduo – possa essere risolto con uno sforzo minimo o nullo.  Questa opinione è così diffusa, che non necessita di ulteriori delucidazioni. Basta considerare i nostri metodi educativi: noi persuadiamo, anzi supplichiamo i nostri giovani perchè si facciano una cultura; in nome della “espressione di sé”, di un orientamento contrario al “rendimento”, della “libertà” strutturiamo ogni corso propedeutico nella maniera più semplice e piacevole. […]

Le cause di questo trend sono facilmente intuibili. Il crescente fabbisogno di personale tecnico ausiliario, insomma di gente poco istruita da impiegare nei servizi pubblici o nel terziario, richiede persone con un sapere superficiale, come sono per l’appunto i diplomati sfornati dalle nostre scuole e università. Secondariamente, tutto il nostro sistema sociale si basa sul principio fittizio per cui nessuno è obbligato a svolgere il lavoro che in effetti svolge. La sostituzione di un’autorità ben identificabile con un’autorità anonima si manifesta in tutti i campi della vita: non c’è più costrizione; tutto viene avallato pretestuosamente dal consenso, e il consenso viene ottenuto con i metodi della suggestione di massa.  Conseguentemente, anche lo studio non è più inteso come un obbligo forzato, ma come un gradevole passatempo; e ciò è tanto più vero nei settori professionali nei quali, nell’ottica sociale, non sia richiesto un sapere serio e rigoroso.

L’idea che lo studio non richieda fatica ha tuttavia un’altra ragione: il progresso tecnico ha effettivamente ridotto la quantità di energia fisica necessaria in passato per la produzione di beni. Con la prima rivoluzione industriale il lavoro fisico, sia dell’uomo che degli animali, fu sostituito con il lavoro meccanico eseguito dalle macchine, mentre la seconda rivoluzione industriale, in seguito all’introduzione dei grandi computer, ha fortemente alleggerito lo sforzo mentale, in particolare quello mnemonico.  L’affrancamento dal lavoro duro viene salutato come il dono più apprezzabile del “progresso” moderno. Potrebbe costituire realmente un “regalo”, ma  a una condizione: che l’energia umana, liberatasi in questo modo, trovi utilizzo in un impegno creativo più alto. Ma non è così.

La liberazione assicurata dalla macchina ha sviluppato l’ideale della pigrizia illimitata, sicchè ogni sforzo effettivo appare come un incubo e uno spauracchio. Vivere bene equivale a una vita senza sforzo; la necessità di doversi affaticare viene considerata, piuttosto, un ultimo relitto medievale, al quale ci si sottopone per forza maggiore, non già volontariamente.  Così si prende l’automobile per andare a fare la spesa semplicemente per risparmiare la fatica di camminare, anche quando il negozio si trova a due passi da casa; e il bottegaio, a sua volta, usa la calcolatrice per addizionare tre numeri e non affaticare la mente.

Affine all’opinione secondo la quale sarebbe possibile vivere senza fatica, è l’errore di escludere la sofferenza dalla vita. Anche questo ha una caratteristica fobica: si tratta di evitare a ogni costo dolore e patimenti di natura fisica e, soprattutto, psichica. È l’epoca del progresso moderno che promette all’uomo di guidarlo nella Terra Promessa dell’esistenza indolore; ne consegue che molti individui avvertono una sorta di paura cronica per la sofferenza. Il termine “dolore” è qui usato in un’accezione assai ampia, quindi non solo in senso fisico e psichico. È anche doloroso esercitare quotidianamente, per ore e ore, scale musicali al pianoforte o occuparsi di un argomento poco interessante, ma persino in questi casi l’impegno, e quindi la fatica, sono indispensabili per acquisire le necessarie conoscenze tecniche. È doloroso starsene seduti al tavolo a studiare quando si preferirebbe incontrare la propria ragazza o, se non altro, andare a spasso e divertirsi in compagnia di amici. Sono piccoli dolori,  è vero, tuttavia occorre essere disposti ad accettarli di buon grado e non controvoglia se si vuole imparare a concentrarsi su ciò che è essenziale e se si desidera progredire nel campo in cui si riconosce il valore.  Quanto alle sofferenze ben più gravi, va detto che la felicità è prerogativa di pochi mentre la sofferenza è il destino di tutti gli uomini. Tuttavia la sofferenza è il denominatore comune nella vita di ciascun uomo. La solidarietà infatti ha una delle sue radici più robuste nell’esperienza che i dolori individuali sono condivisibili.

 

Ora

Estratto da “La saggezza dei tempi” di Wayne W.Dyer – Edizioni BUR

—————————————————————————————————

Dal Rubaiyat
“Il Dito mobile scrive; e avendo scritto prosegue;  né la tua pietà, né la tua intelligenza potranno lusingarlo a tornare indietro per cancellare anche solo mezza riga,
e neppure tutte le tue lacrime potranno dilavarne una sola parola.”
‘Omar Khayyām* (1048?-1122)

Sono passati quasi mille anni dalla nascita di ‘Omar, il costruttore di tende poeta, astronomo più famoso del mondo, nonché brillante narratore di novelle filosofiche. Questa quartina che proviene dal Rubaiyat contiene una lezione di cui il tempo non ha minimamente scalfito l’importanza. Queste parole famose abbracciano una verità sottile che sfugge a molta gente.

Un modo di comprendere la saggezza di questa quartina è immaginare il proprio corpo a bordo di un motoscafo che incrocia sul mare alla velocità di quaranta nodi all’ora. Voi vi trovate a poppa e guardate l’acqua. Quel che vedete in questa scena immaginaria è la scia. Ora, io vi chiedo di fare un po’ di filosofia su queste tre domande.

Domanda n.1: Che cos’è la scia? Potreste concludere che la scia non è altro che la traccia che vi lasciate alle spalle.
Domanda n.2: Che cosa governa lo scafo? (Lo scafo rappresenta voi stessi che “navigate” nella vostra vita) La risposta è “l’energia generata nel momento presente dal motore è ciò che fa andare avanti la barca”. Oppure, nel caso della vostra vita, sono i pensieri del momento presente che spingono il vostro corpo a muoversi in avanti e nient’altro!
Domanda n.3: È possibile che sia la scia a governare la barca? La risposta è ovvia. La traccia che la barca si lascia a poppa non potrà mai spingerla in avanti. È solo una scia e nient’altro. “Il Dito mobile scrive; e avendo scritto, prosegue…”

Una delle maggiori illusioni consiste nel credere che il passato sia responsabile della condizione attuale della nostra esistenza. Spesso ricorriamo a spiegazioni di questo tipo per capire che non riusciamo a uscire dai nostri soliti binari. Insistiamo ad attribuire la responsabilità di ciò a tutti i problemi che abbiamo affrontato nel passato. Prendiamo le ferite che abbiamo sofferto in gioventù, ci leghiamo a esse, e diamo a quelle sfortunate esperienze la responsabilità delle nostre attuali miserie. Queste, insistiamo, sono le ragioni per cui non possiamo progredire, procedere oltre. In altre parole, viviamo nell’illusione che sia la nostra scia a guidare la nostra esistenza.
Pensate a quando siete feriti – ad esempio avete un taglio alla mano. La natura del vostro corpo si ridesta immediatamente e comincia a rimarginare la ferita. Naturalmente, dovete pulire la ferita perché guarisca – e la stessa cosa vale per le ferite emotive. Ma a quel punto la guarigione avviene piuttosto rapidamente perché la vostra natura dice: ”Chiudi tutte quelle ferite e sarai guarito”. Eppure, quando la vostra natura vi ordina: “Chiudi tutte le ferite del tuo passato”, spesso la ignorate e, invece, create una sorta di dipendenza da quelle ferite, vivendo tra i ricordi e alimentate in voi l’illusione che siano le onde di quel passato la fonte della vostra immobilità, della vostra incapacità di andare avanti.
Il dito mobile di cui parla ‘Omar Khayyām è il vostro corpo. Quel che ha scritto è completo e non c’è assolutamente nulla da fare per tornare indietro, per riscriverlo. Nessuna delle vostre lacrime potrà cancellare una sola parola della vostra storia così com’è stata scritta. Tutta l’intelligenza, tutta la preghiera e la pietà del mondo non possono mutare una sola goccia della vostra scia. È la strada che vi siete lasciata alle spalle. Sebbene possiate ricavare un beneficio dalla contemplazione di quell’itinerario, è necessario che arriviate alla consapevolezza che solo i pensieri del vostro presente possono influire sulla vostra vita odierna.
Si dice spesso che le situazioni particolari non fanno un uomo, ma lo rivelano. La tendenza ad accusare il nostro passato per i nostri guai odierni ci tenta. È la strada più semplice, perché ci fornisce un’ottima scusa per evitare di assumerci i rischi collegati al fatto di governare per conto nostro la barca. Ognuno, e sottolineo ognuno, ha nel suo passato situazioni ed esperienze che possono essere utilizzate come scuse per l’inattività. La  scia di tutte le nostre vite è piena di detriti provenienti dalla nostra storia passata. Le insufficienze dei nostri genitori, le dipendenze, le fobie, gli abbandoni, i contrasti con gli altri membri della famiglia, le occasioni perdute, la sfortuna, le condizioni economiche insoddisfacenti, e persino il fatto di essere primogeniti o ultimogeniti, di avere o non avere fratelli tutto ciò ci osserva minaccioso dalla scia che ci siamo appena lasciati alle spalle. Eppure, il dito mobile ha scritto la storia e nulla può riscriverla.
‘Omar Khayyām, anche se è vissuto in un altro luogo, in un altro tempo e ha parlato un’altra lingua, ci ricorda la semplice nozione che il passato è passato e non si può farlo rivivere. Inoltre, è una grossa illusione credere che il passato sia ciò che ci guida o ci impedisce di dare alla nostra esistenza la direzione che vogliamo oggi. Il dito è ancora attaccato al vostro cuore, e oggi può scrivere quel che preferisce, indipendentemente da quel che ha scritto ieri. E allora, svegliatevi, lasciate perdere la scia e ascoltate la saggezza di ‘Omar, il costruttore di tende!
La lezione essenziale di questa quartina è qui riassunta:

  • Vivi oggi. Abbandona il tuo attaccamento al passato e non farne una scusa per le condizioni in cui vivi oggi. Sei il prodotto delle scelte che compi proprio oggi, e nulla nella tua scia può influenzarti, se solo presti attenzione a questa semplice indicazione di buon senso.
  • Elimina il rimpianto dal tuo vocabolario. Se ti sorprendi a utilizzare il tuo passato per cercare di darti una ragione della tua incapacità di agire oggi, di’ a te stesso: ”Sono libero di staccarmi da quello che ero”.
  • Scrollati di dosso le lacrime che sono state il simbolo del tuo attaccamento al passato. La tristezza e l’autocommiserazione non riusciranno a cancellare un solo frammento, per quanto minuscolo del tuo passato. Ricorda alle parti ferite di te stesso che il passato è passato, e che oggi è ora. Impara da quelle esperienze, ringraziale per averti insegnato molte cose e quindi torna al tuo lavoro quotidiano, ora! C’è un passato, ma non è ora. C’è il futuro, ma non è ora. Afferra questa semplice verità che ti arriva da mille anni fa e utilizzala per scrivere la tua vita.

———————————————————-

* ’Omar Khayyām fu uno studioso e astronomo vissuto in Persia. La sua poesia riflette il suo pensiero sulla divinità, sul bene e sul male, sullo spirito, la materia e il destino.