Ci sono più cose nella vita di ogni uomo…

Estratto da “Il codice dell’anima” di James Hillman – Adelphi Edizioni

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Ci sono più cose nella vita di ogni uomo di quante ne ammettano le nostre teorie su di essa. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Alcuni di noi questo “qualcosa” lo ricordano come un momento preciso dell’infanzia, quando un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione un curioso insieme di circostanze, ci ha colpiti co la forza di un’annunciazione: Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo essere. Ecco chi sono.
Questo libro ha per argomento questo annuncio.
O forse la chiamata non è stata così vivida, così netta, ma più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre ci lasciavamo galleggiate nella corrente pensando ad altro. Retrospettivamente, sentiamo che era la mano del destino.
Questo libro ha per argomento quel senso di destino.
Tali annunci e tali sensazione determinano una biografia con altrettanta forza dei ricordi di violenze terribili; solo che quegli enigmatici momenti tendono ad essere relegati in un angolo. Le nostre teorie, infatti, danno la preferenza ai traumi, e al compito che essi ci impongono di elaborali. Ma, nonostante le offese precoci e tutti i “sassi e dardi dell’oltraggiosa sorte”, noi rechiamo impressa fin dall’inizio l’immagine di un preciso carattere individuale dotato di taluni tratti indelebili.
Questo libro ha per argomento la potenza di quel carattere.

Poiché le teorie psicologiche della personalità e del suo sviluppo sono così fortemente dominate dalla visione “traumatica” degli anni infantili, la messa a fuoco dei nostri ricordi e il linguaggio con cui raccontiamo la nostra storia, sono a priori contaminati dalle tossine di tali teorie. È possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili, bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmato male.
Questo libro, dunque, vuole riparare in parte a tali guasti, mostrando che cos’altro c’era, c’è, nella nostra natura. Vuole risuscitare le inspiegabili giravolte che ha dovuto compiere la nostra barca presa nei borghi e nelle secche della mancanza di senso, restituendoci la percezione del nostro destino. Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.
Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine innata i cui contorni va riempiendo nella propria biografia.    […]

Quello della biografia è un problema che ossessiona la soggettività occidentale, come dimostra il suo abbandono alle terapie del Sé. Chi è in terapia, o è comunque toccato dalla riflessione terapeutica sia pure diluita nel bagno di lacrime delle confessioni in diretta Tv, è alla ricerca di una biografia soddisfacente: Come posso mettere insieme in un’immagine coerente i pezzi della mia vita? Come posso rintracciare la trama di fondo della mia storia?
Per scoprire l’immagine innata dobbiamo accantonare gli schemi psicologici generalmente usati – e per lo più usurati. Essi non rivelano abbastanza. Rifilano le vite per adattarle allo schema: crescita come sviluppo, una fase dopo l’altra, dall’infanzia attraverso una giovinezza tormentata fino alla crisi della mezza età e, infine, alla morte. Mentre procedi, un passo dopo l’altro, attraverso una mappa già tutta disegnata, ti ritrovi su un itinerario che ti dice dove sei stato prima ancora che tu ci sia arrivato, o nella media di una statistica calcolata da un attuario per conto di una compagnia di assicurazioni. Il corso della tua vita è stato descritto al futuro anteriore. Oppure, invece della prevedibile autostrada, sarà “il viaggio” fuori dagli itinerari battuti, in cui si accumulano e si scartano episodi senza un disegno, e gli eventi sono frantumanti come uni un curriculum vitae organizzato esclusivamente sulla base della cronologia: prima ho fatto Questo, poi Quest’altro. Una vita simile è come una narrazione priva di trama, tutta imperniata su una figura centrale sempre più tediosa, “io… io… io…”, che vagola nel deserto di “ vissuti” senza linfa.

Io dico che siamo stati derubati della nostra biografia  –  il destino scritto  nella ghianda* –  e che entriamo in analisi per riappropriarcene. Ma l’immagine innata non si potrà ritrovare, finché  non  disporremo  di  una  psicologia  che  attribuisca realtà psichica primaria alla chiamata  del  destino,  altrimenti,   la nostra  identità  continuerà  a  essere  quella  del consumatore  dei  sociologi, determinata  da  statistiche  calcolate su campioni casuali, mentre le sollecitazioni del daimon**, non riconosciute,  appariranno come eccentricità costipate di aggressivi rancori e di paralizzanti nostalgie. La rimozione, che tutte le scuole terapeutiche considerano la chiave di accesso alla struttura della personalità, non riguarda il passato, bensì la ghianda, e gli errori che in passato abbiamo compiuto nel rapportarci ad essa.

Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romantico. Perciò questo libro raccoglierà anche il tema romantico e oserà vedere la biografia alla luce di grandi idee come la bellezza, il mistero, il mito.

*La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce. (p.27) – Questa teoria indica che ciascuno di noi possiede in sé l’essenza di ciò che è destinato ad essere, così come la ghianda contiene in sé l’essenza della quercia.

**Daimon – la nostra vocazione.

Il viaggio come metafora della vita

 

CONFERENZA LIBERA ONLINE

Martedì 16 marzo ore 20,30 – 22,30 ca.

La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori.
Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
                                     Fernando Pessoa

 

Il desiderio  di  viaggiare nasconde  un  anelito  di  ricerca  e  di conoscenza.  In alcune situazioni, invece, il viaggio è visto come fuga, come distacco, allontanamento oppure separazione e perdita. Viaggiare può far soffrire o dare gioia, ma è comunque un momento di cambiamento.

Dalla nascita alla fine della vita,  in noi avvengono modificazioni  che,  passo dopo passo, costruiscono le nostre percezioni, il nostro modo di vivere e il nostro modo di essere. Molti autori antichi e moderni hanno adottato questa metafora per mostrarci come l’uomo si orienta  attraverso  le  esperienze  quotidiane,  per scelta o per necessità.  Grazie a loro possiamo osservare come il movimento avviene secondo schemi di fondo simili per tutti, in quanto archetipi dell’essere umano.

Nella serata si proporranno alcune interpretazioni del viaggio per stimolare o suggerire considerazioni sulla nostra esistenza secondo altri parametri.

Adesione  entro  Lunedì 15  marzo

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Informazioni e iscrizioni: contatti

 

 

Noi siamo parte della terra …

Estratto da Lettera del Grande Capo Seattle, della tribù di Suwamish, a Franklin Pierce, Presidente della Confederazione degli Stati Uniti d’America (1855)

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Come potete comprare o vendere il cielo o il calore della terra? Questa idea ci meraviglia. Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria, né dello scintillio dell’acqua; come potreste comprarle da noi? Dovete sapere che ogni più piccola parte di questa terra, per il mio popolo, è sacra. Ogni foglia che riluce, ogni spiaggia sabbiosa, ogni nebbiolina del bosco oscuro, ogni limpidezza del cielo ed ogni insetto, col suo ronzio, sono sacri nella memoria e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che scorre negli alberi porta le memorie dell’uomo di pelle rossa.
I morti dell’uomo bianco, quando camminano tra le stelle, si dimenticano della loro terra natale. I nostri morti mai dimenticano questa bella terra, perché essa è la madre dell’uomo di pelle rossa. Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo,  il cavallo,  l’aquila maestosa,  sono  nostri  fratelli.  Le montagne rocciose,  le acque delle praterie,  il calore del corpo del puledrino  e  quello dell’uomo, appartengono tutti alla stessa famiglia. Per questo, quando il Grande Capo di Washington manda a dire che desidera comprare le nostre terre, chiede più di quanto sia possibile. Il Gran Capo manda a dire che ci riserverà un posto dove tutti noi potremo vivere comodamente. Egli sarà nostro padre e noi saremo i suoi figli. Questo prenderemo in considerazione quando considereremo la sua offerta di comprare le nostre terre. Ma questo non sarà facile, perché queste terre sono sacre per noi.

L’acqua scintillante che scorre nei fiumi, nelle paludi e nei ruscelli, non è solamente acqua, ma è anche il sangue dei nostri antenati. Se vi concederemo di stare in queste terre, dovrete ricordarvi che esse sono sacre, e dovrete insegnare ai vostri figli che lo sono, e ogni riflesso fantasmagorico nelle acque limpide dei laghi, parla di fatti e ricordi della vita del mio popolo. Il mormorio dell’acqua è la voce del padre di mio padre. I fiumi sono nostri fratelli, essi calmano la nostra sete. I fiumi portano le nostre canoe e alimentano i nostri figli. Se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete ricordare ed insegnare ai vostri figli che i fiumi sono nostri fratelli, ed anche fratelli vostri. In avvenire dovrete avere verso i fiumi il comportamento affettuoso che avreste con un qualsiasi vostro fratello.

Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro modo di essere. Un pezzo di terra o un altro, per lui sono la stessa cosa, poiché egli è un “estraneo che arriva di notte” a prendere la terra di cui ha bisogno. La terra non è sua madre, ma è la sua nemica. Dopo averla conquistata, l’abbandona e continua il suo cammino. Lascia dietro di sé le tombe dei suoi padri, e non gliene importa. Priva i suoi figli della terra, e non se ne cura.
Dimentica la tomba di suo padre e i diritti dei suoi figli. Tratta la sua madre terra ed il suo fratello cielo come se fossero cose che si possono comprare, saccheggiare e vendere, come fossero agnelli o oggetti di vetro. Il suo insaziabile appetito divorerà la terra e lascerà dietro di sé solo un deserto. Io non comprendo il vostro modo di vivere. Il nostro modo di vivere è diverso dal vostro. Vedere le vostre città causa dolore agli occhi dell’uomo di pelle rossa. Ma forse è così perché l’uomo di pelle rossa è un selvaggio e non comprende le cose.

Non c‘è nessun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco, nessun posto dove si possa ascoltare lo stormire delle foglie in primavera o il ronzio di un insetto. Ma forse è così perché sono un selvaggio e non posso comprendere le cose. Il rumore della città è un insulto all’udito. E che genere di vita è quella di un uomo che non è capace di ascoltare il grido solitario di un airone o il canto notturno delle rane nello stagno? Sono un uomo di pelle rossa e non lo comprendo. Noi indiani preferiamo il soave suono del vento che accarezza il lago e l’odore del vento purificato dalla pioggia del mezzogiorno o profumato dalla fragranza dei pini. L’aria è qualcosa di prezioso per l’uomo di pelle rossa, perché tutte le cose partecipano dello stesso respiro: l’animale, l’albero, e l’uomo. L’uomo bianco sembra non apprezzare l’aria che respira. Come un uomo per molti giorni agonizzante, è diventato ormai insensibile al fetore. Ma, se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete ricordare che l’aria è preziosa per noi, che l’aria partecipa con il suo spirito a tutta la vita che alimenta. E se vi concederemo di stare nelle nostre terre, dovrete lasciarle intatte e mantenerle sacre, come un luogo nel quale potrà arrivare anche l’uomo bianco a compiacersi di respirare il vento profumato dai fiori della prateria. Prenderemo in considerazione la vostra offerta di comprare le nostre terre. Se decideremo di poterla valutare, sarà solo alla condizione che l’uomo bianco consideri gli animali di questa terra come fratelli. Sono un selvaggio, e non comprendo un altro modo di vivere. Ho visto migliaia di bufali in putrefazione nelle praterie, abbandonati dall’uomo bianco che aveva sparato loro da un treno in corsa.. Sono un selvaggio, e non comprendo come il fumante cavallo a vapore possa essere più importante del bufalo che noi uccidiamo solo per poter vivere. Cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali fossero spariti, l’uomo sarebbe morto, in una grande solitudine del suo spirito. Perché tutto quello che serve agli animali serve anche all’uomo. Tutte le cose sono in relazione fra di loro.

Voi dovete insegnare ai vostri figli che il suolo che è sotto i loro piedi è la cenere dei loro nonni. Affinché rispettino la terra, dovete dire ai vostri figli che la terra è piena della vita dei nostri antenati. Dovete insegnare ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: che la terra è nostra madre. Tutto quello che riguarda la terra riguarda anche i figli della terra. Quando gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi lo sappiamo: la terra non appartiene all’uomo, ma l’uomo appartiene alla terra. L’uomo non ha tessuto la rete della vita. E’ solo una agugliata di filo di questa rete. Tutto quello che fa alla rete, lo fa a se stesso. Quello che serve alla terra, servirà ai figli della terra. Questo noi lo sappiamo: tutte le cose sono in relazione, come il sangue che unisce una famiglia.

Anche l’uomo bianco, il cui Dio passeggia con lui e parla con lui da amico ad amico, non può esentarsi dal destino comune. Forse siamo fratelli, dopo tutto. Vedremo. Noi sappiamo qualcosa che l’uomo bianco un giorno scoprirà: che il nostro è il suo stesso Dio. Ora forse pensate di poter comprare le nostre terre e di diventarne padroni, ma non potete esserlo. Il vostro e il nostro Dio è lo stesso, perché è il Dio dell’umanità. La Sua compassione è la stessa, sia verso l’uomo di pelle rossa che verso l’uomo di pelle bianca. Questa terra è preziosa per Lui e danneggiarla significa mostrare disprezzo verso il suo Creatore. Anche voi uomini bianchi passerete e, qualche volta, finirete il vostro corso prima delle altre tribù. Se contaminerete il vostro letto, una notte morirete soffocati dai vostri stessi rifiuti. Eppure voi, anche nella vostra ultima ora, sarete convinti del fatto che Dio vi portò sulla terra e vi diede il dominio su di essa e sull’uomo di pelle rossa, con qualche progetto speciale. Questo disegno è un mistero per noi, perché non comprendiamo quello che succederà quando i bufali saranno sterminati, tutti i cavalli selvaggi saranno stati domati, quando i più reconditi angoli dei boschi non effonderanno più il loro profumo e quando la vista verso le verdi colline sarà impedita da una fitta rete di fili metallici parlanti. Dov’è il fitto bosco? Scomparve. Dov’è l’aquila? Scomparve. Così finisce la vita, e inizia la sopravvivenza.

 

Testo integrale:  http://www.labibliotecadibabele.net/attachments/article/144/seattle.pdf

 

Le forze interiori

Laboratorio   online

sabato 13  marzo ore 15:00 – 18:00 ca.

con contributo

L’energia è sempre in movimento verso l’esterno o verso l’interno. Non può mai restare ferma: se fosse ferma non sarebbe energia, ma non esiste nulla che non sia energia. Quindi, tutto si sta muovendo in qualche modo.
Osho

Conoscere  le  forze interiori dell’uomo  e  come si esprimono è  uno  dei  passi  verso una sempre  maggiore  comprensione di se stessi;  i nostri pensieri  e  i  nostri comportamenti infatti  sono  originati  dal  tipo  di  energie  interiori  che  attiviamo, così come  il benessere fisico è l’espressione dell’armonia interiore.

In  una  prima  parte  teorica,  recupereremo  e   approfondiremo  più  dettagliatamente  le informazioni considerate nelle conferenze del ciclo “Parliamo di Energie” e osserveremo  le modalità  con  cui  esse  si  manifestano, quando  sono  armoniche  o  disarmoniche,  nel  contesto personale e relazionale.

La  parte  laboratoriale  successiva  è  una possibilità  per  ciascuno  di  riconoscere  quali  movimenti energetici  sente  appartenergli  in  modo  particolare  e quali invece quelli a cui dà maggiore spazio o che agisce più frequentemente senza rendersene conto.

 

Adesione  entro  Giovedì 11  marzo

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Informazioni e iscrizioni: contatti

 

 

 

Diventare ciò che si è

Estratto da “ La forza di essere migliori” di Vito Mancuso – Garzanti Editore

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“Diventare ciò che si è”: il verbo diventare rimanda a un processo e indica due cose. La prima è che ognuno di noi, così come vive immediatamente, non è ciò che è veramente; che cioè tra la nostra vita di fatto e la nostra esistenza autentica non si dà coincidenza immediata, e che quindi essere se stessi richiede un lavoro, nonché la forza di poterlo svolgere. Nasciamo dipendenti in tutto e per tutto e trascorriamo buona parte della vita da gregari, ovvero, come dice la radice dell’aggettivo, completamente inseriti all’interno di un gregge che ci determina nella direzione, nella velocità, nello stile e quindi necessariamente nell’identità. Il lavoro dell’etica nella sua fase iniziale consiste quindi anzitutto nel distaccarsi dal gregge, nel cominciare a camminare in solitaria e diventare in questo modo egregi, letteralmente “fuori dal gregge” (ex-grege). Per diventare se stessi si deve anzitutto decidere di non essere più come ci vogliono gli altri, siano essi i genitori, gli amici, il partner, i figli, il movimento, la religione, la moda, la società dei consumi e chissà che altro.
La seconda conseguenza implicita nel verbo diventare è l’indicazione che si tratta di un lavoro realizzabile: è cioè davvero possibile diventare ciò che si è. Diversamente da chi afferma, magari con un’alzata di spalle: “Guarda, non ci posso fare niente, io sono fatto così”, l’insegnamento delle grandi tradizioni spirituali è unanime nell’affermare il contrario: ognuno più cambiare la sua condizione di partenza e diventare migliore realizzando autenticamente se stesso. I frutti del lavoro interiore sono del resto facilmente riconoscibili, basta aprire gli occhi per vedere che vi sono esseri umani che, a prescindere dal successo ottenuto, in quanto umani risultano falliti: sono incapaci di ascolto e di contatti reali perché imprigionati dentro la terribile gabbia mentale dell’ego: oppure tragicamente scontenti di sé e della vita, imbruttiti, sfiduciati, incattiviti; oppure sommersi nelle acque salmastre dell’ignoranza e della stupidità. E vi sono invece altri esseri umani che vivono lieti, sereni, grati della loro condizione: persone sul cui volto risplende la luce dell’intelligenza e della bontà, che hanno saputo conservare la fiducia nella vita, e l’attenzione al suo inesauribile mistero, che non hanno tradito l’energia dell’infanzia ma hanno conservato la capacità di stupirsi e per questo infondono gioia al solo incontrarle. Insomma vi sono persone infelici e colleriche che trasmettono energia negativa e vi sono persone felici e serene che trasmettono energia positiva. Da cosa dipende questa differenza?
Non è facile rispondere, ma io penso che dipenda in gran parte dal lavoro compiuto. Esattamente come quando si vede un giardino o un vigneto e l’occhio esperto riconosce all’istante la qualità della fatica profusa, allo stesso modo, quando si sente parlare o si osserva in azione un essere umano è sufficiente poco per rendersi conto della qualità della sua interiorità e intravedere le erbacce o i frutti saporiti che essa nasconde. Il lavoro interiore infatti consiste anzitutto nello sradicamento delle erbacce e delle malapiante che, chissà perché e chissà da dove, spuntano spesso dentro di noi, e poi nell’assidua coltivazione del terreno in cui riposa il seme del più autentico sé per farlo fiorire e fruttificare.

Una questione di igiene
Volendo esprimere il concetto con un’altra metafora, direi che il lavoro interiore è primariamente una questione di igiene. Quando si parla di igiene pensiamo d’istinto al corpo, il che è normale visto che il corpo si sporca quotidianamente per il fatto stesso di vivere: gli avanzi di cibo si depositano sui denti, il sudore si secca lasciando un sentore di acido, le cellule morte si accumulano, e la continua secrezione di sebo che rende morbida la pelle finisce per renderla anche inevitabilmente maleodorante. Il nostro corpo produce sporcizia per il fatto stesso di essere, non ne può fare a meno, e ci obbliga a lavarlo con cura. Ma io chiedo: questa cura dell’igiene non dovrebbe vale allo stesso modo anche per la nostra interiorità? Non si sporca anche lei per il fatto stesso di vivere? Non richiede anche lei di essere pulita? E se sì, qual è la sua doccia o il suo spazzolino?
Con il termine volutamente neutro di interiorità intendo quella dimensione del nostro essere variamente denominata, per esempio psiche, sé, mente, coscienza, cuore, anima, spirito, ipseità, ego, io … su cui le opinioni degli umani non sono mai state concordi e oggi risultano più confuse che mai. Ebbene il lavoro interiore consiste nel ripulire e risanare questa nostra misteriosa ma reale interiorità. Come ci prendiamo cura del corpo mediante l’igiene personale, così dovremmo lavare, spazzare, strigliare la nostra interiorità. Essere migliori in questa prospettiva è quindi anzitutto una questione di igiene, al fine di ottenere, come di usa dire, una coscienza pulita.
È infatti proprio quella peculiare disposizione della nostra più preziosa energia interiore che chiamiamo coscienza su cui mi soffermerò con attenzione più avanti, il principale fattore che ci fa essere migliori come esseri umani.

Migliori come esseri umani
Migliori come esseri umani? Non sto dicendo migliori come studenti, insegnanti, artigiani, dirigenti, atleti, giudici, imprenditori o che altro, secondo i sempre più esigenti parametri che ci vengono quotidianamente richiesti dal mondo del lavoro, sia per entrarvi sia per rimanervi. Sto dicendo migliori come esseri umani, del tutto a prescindere dalla professione, anche non senza una palpabile ricaduta su di essa, perché quando uno è migliore come essere umano sarà anche migliore professionalmente (a meno che di professione non sia un ladro, un killer o un’altra delle varie figure criminali per interpretare le quali occorre davvero essere “cattivi dentro”). Ma è possibile essere migliori come esseri umani? E prima ancora, cosa significa esattamente?
Essere migliori come esseri umani significa esercitare l’intelligenza in modo da comprendere veramente le diverse situazioni della vita acquisendo quella penetrazione e ponderazione delle cose che si chiama saggezza. Significa esercitare la volontà in modo da dirigerla a volere non il proprio scontato interesse, come fanno d’istinto coloro che sono privi di educazione morale, ma ciò che tutti riconoscono come equo e corretto, cioè la giustizia. Significa rispettare la parola data, rimanere saldi, perseverare, resistere, avere coraggio nell’aprire strade nuove, esercitando la fortezza. Significa procedere con equilibrio, centrare quel giusto mezzo che sa sì che una parola o un’azione sia, come la grande musica, “ben temperata”, praticando la temperanza.
Saggezza*, giustizia, fortezza e temperanza costituiscono le cosiddette virtù cardinali. Denominate così dalla tradizione cristiana, esse sono più antiche di secoli perché provengono dalla filosofia della Grecia classica. Esercitarle quotidianamente significa diventare migliori come esseri umani. Queste virtù, queste disposizioni della nostra energia interiore definibili “forze del bene”, ci possono rendere più saggi, più giusti, più forti, più temperanti e quindi umanamente migliori.

* Nota a piè pagina – Solitamente la prima virtù è denominata prudenza sulla base del latino prudentia, ma tale traduzione, come chiarirò, è un errore.